Marcantonio Bragadin e l’Assedio di Famagosta nel 1571 (II)

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Nel frattempo, i turchi avevano issato l’ennesima bandiera per richiedere di trattare e, alla risposta positiva di Salamina, Mustafà spedì un suo messaggero cui aveva affidato delle lettere, avvolte in un contenitore chiuso, e con il sigillo d’oro, dirette al Bragadin, con le quali chiedeva la resa della città alle condizioni che lo stesso Bragadin desiderasse, e richiedeva che gli fosse data risposta.

Il Bragadin rispose così al messaggero di Mustafà:

«Dirai al tuo signore che difenderò questa città fino alla morte.» E subito gli ordinò di lasciare la città.

Il 29 luglio i turchi diedero fuoco a cinque cunicoli, e tentarono il quinto assalto. A mezzogiorno incendiarono altri due cunicoli. Alla sera un altro, l’ottavo.

Mustafà aveva stabilito di occupare la città in quel giorno a qualunque costo. Eppure, dopo aver riunito tutto l’esercito, abbandonò il suo proposito nonostante la maggior parte dei cristiani fosse perita a causa delle frecce piovute come tegole, dei sassi scesi come una tempesta, delle batterie violente come fulmini, tanto che il mondo sembrava essersi rovesciato e che fosse sul punto di essere distrutto.

I turchi non potevano fare più di quello fecero in quel giorno. I pochi cristiani rimasti erano mezzi morti, e quasi sordi e ciechi per l’eccessivo rumore, per le grida, per il fumo e la polvere che, sparsi ovunque nell’aria, oscuravano cielo, aria e terra.

Durante tutta la giornata il comandante Bragadin, armato di tutto punto, correva da un posto all’altro a seconda di dove ci fosse più bisogno di lui. Dava un insigne esempio di strenua opposizione e difesa della città.Lo stesso facevano Astorre Baglioni, Luigi Martinengo, Giovanni Antonio Querini e Andrea Bragadin, castellano di Salamina. E tutti i capitani sopravvissuti. E anche tutti i soldati italiani, albanesi e i greci si impegnarono al massimo. Combatterono egregiamente tutti i religiosi, monaci e preti, e anche le donne si opposero con forza e coraggio ai nemici. Grazie a questo sforzo, alla ventitreesima ora i turchi furono costretti a una ritirata vergognosa, dopo aver sofferto gravissime perdite fra le unità migliori del loro numerosissimo esercito.

La città però era ridotta in completa rovina, non solo perché erano crollate le mura, ma anche perché erano morti la maggior parte dei soldati. Questo fu il giorno in cui le forze di Salamina furono completamente distrutte.

Il giorno seguente, i turchi tentarono un sesto assalto utilizzando l’artiglieria come mai prima, sia quella di terra, sia quella navale. Ciononostante, furono respinti nove volte e costretti alla ritirata prima del tramonto.

Dopo questa battaglia incredibilmente dura, i cristiani erano in preda allo sconforto. In parte morti, in parte feriti, in parte così stanchi da non poter sostenere più alcuno sforzo, non avevano nulla da bere e mangiare ad eccezione di due pani al giorno, per giunta piccoli, e dell’acqua. Per questo, nonostante il Bragadin tentasse di consolare tutti come poteva, non poteva nascondere ciò che era più chiaro della luce: erano ridotti allo stremo.

Eppure si poteva vedere in quell’uomo eccezionale un animo grande ed eccellente, tanto che tutti quelli che erano scossi da una grande paura, al suo cospetto non temevano nulla, e tutti sembravano sperare per la grande magnanimità dell’uomo, di certo erano contrariati da tanta sfortuna e dal fatto che gli aiuti dell’armata cristiana potessero non arrivare in tempo, ma senza alcuna paura erano disposti e preparati a versare il sangue per la loro patria.

L’ultimo giorno di luglio i turchi diedero l’ultimo assalto, e nonostante tre tentativi e i difensori quasi tutti morti, furono respinti. A mezzogiorno furono costretti alla ritirata.

ll Bragadin passò in rassegna tutti i forti e comprese, con suo sommo dolore, che erano ridotti in pessimo stato e che non davano più alcun vantaggio agli assediati nei confronti degli assedianti. Capì perfettamente che tutto era ridotto all’osso. Le truppe erano distrutte, la polvere da fuoco consumata e mancava qualsiasi cosa potesse sostenere la città.

Dopo aver valutato la situazione comprese ciò che era palese: non si poteva fare più nulla per fare in modo che la città resistesse ancora. Per questo motivo decise quanto dettato dalla necessità: se i turchi avessero concesso condizioni oneste, bisognava consegnare loro Salamina. Non poteva neanche più definirsi «città», ma piuttosto «deserto», visto che mancava qualsiasi cosa necessaria alla vita, eccezion fatta per il coraggio dei difensori. Nel caso in cui i turchi non avessero voluto concedere buone condizioni ai superstiti di Salamina, il Bragadin voleva un’ultima battaglia, una vittoria cruenta e luttuosa per i turchi, piuttosto che lasciar impunita la morte dei cristiani e lasciare trucidare come pecore quelli che erano rimasti.

Non appena il Bragadin, e gli altri di cui abbiamo detto, arrivarono alla tenda di Mustafà, fu loro ordinato di deporre le armi, e con gentilezza e benevolenza lo stesso Mustafà salutò tutti. Fu lui a farli entrare nella sua tenda e a sedere con loro, iniziando una tranquilla e piacevole discussione in cui lodava la loro capacità e la loro forza nel difendere la città.

Poco dopo però, improvvisamente furioso e con tono di minaccia, si rivolse al Bragadin:

«Che cosa hai fatto dei miei uomini che tenevi prigionieri nella fortezza?»

«Parte sono ancora nella fortezza, altri li ho mandati a Venezia» rispose il Bragadin.

Mustafà si fece rosso in volto. Con occhi truci, schiuma alla bocca e voce torbida disse: «Hai ancora il coraggio di mentire dopo che li hai trucidati?»

«Ho detto la verità, puoi controllare» rispose il Bragadin.

«Dov’è la polvere da sparo?» continuò Mustafà.

«La poca che avevo l’ho consegnata ai tuoi amministratori.»

«Dove sono finite le vettovaglie, il frumento, il vino, l’olio e l’aceto?»

«Abbiamo consumato tutto» disse il Bragadin.

Allora Mustafà, gridando come un animale e tremante d’ira, si alzò in piedi e, sguainata la spada, disse: «perché dunque, cane, facevi resistere la città pur non potendo difenderla in alcun modo? Perché non ti sei arreso subito, invece di trucidare tante migliaia dei miei uomini?»

Dette queste parole ad alta voce, ordinò che fossero tutti incatenati. Fu facile perché le armi dei cristiani erano rimaste fuori dalla tenda e quindi erano tutti disarmati.

Furioso, Mustafà iniziò la carneficina di propria mano. Tagliò l’orecchio destro del Bragadin e ordinò ai suoi uomini di tagliargli la sinistra. Preso dall’ira, comandò che tutti i cristiani che si trovavano nel campo fossero trucidati. Infiammata la rabbia dei turchi, subito furono uccisi trecento cristiani.

Poi, preso da una enorme perfidia, e per arrecare un dolore ancora maggiore al Bragadin, fece tagliare la testa ad Astorre Baglioni e a Luigi Martinengo appena fuori dalla tenda.

Lo stesso Bragadin fu obbligato tre volte a porgere il collo come se volessero tagliargli la testa. Quegli scellerati lo insultarono, calpestarono, lo trascinarono per terra, gli sputarono in faccia. Il crudele Mustafà gli urlava: «Dov’è il tuo Cristo, colui che dovrebbe liberarti dalle mie mani?»

Mentre il comandante veniva torturato in ogni modo, tutto l’esercito turco si mosse verso la città per uccidere i cristiani e distruggere le loro abitazioni. Per quanto il saccheggio fosse stato proibito tramite un editto pubblico, molti entrarono in città sprezzanti del comando e, sparpagliatisi per le strade, pestavano, stupravano e maltrattavano tutti quelli che incontravano, senza distinzioni di ceto, sesso o età. Ne uccisero molti, affliggendo in modo atroce tutta la città. Passati poi al porto, rapinarono tutti i cristiani già sistemati nelle galee, li ridussero in catene e li frustarono con ferocia.

Mustafà ordinò poi di portare alla tenda le teste di tutti i decapitati, fra le quali c’erano quelle del castellano Andrea Bragadin e del patrizio veneto Giovanni Antonio Quirini, e di metterle insieme a quelle di Astorre Baglioni e di Luigi Martinengo. Nestore Martinengo, che per alcuni giorni si era nascosto, fu fatto prigioniero da alcuni dignitari turchi. Ercole Martinengo, uno degli ostaggi consegnati per la firma della resa, venne nascosto da un eunuco e salvato dall’ira di Mustafà.

Questi, entrato in città il 4 settembre 1571, decise in modo crudelissimo della vita di Lorenzo Tiepolo e di Manolio Spilotto, capitano albanese. Furono condotti per la città, massacrati a calci e pugni e umiliati. Presi a sassate, vennero poi impiccati, squartati, fatti a pezzi e gettati in pasto ai cani.

Il giorno otto dello stesso mese, il Bragadin venne portato in tutti i luoghi decisi per il supplizio. Era già in gravi condizioni, con la testa putrefatta a causa dell’amputazione delle orecchie, che non erano state medicate. Fu costretto a portare terra e pietre avanti e indietro per tre, quattro volte, gettato in terra ed interrogato sulle cose più turpi, con il perfido Mustafà sempre presente.

Trascinato poi sulla trireme di Rapamato, fu legato a una tavola e tirato su, per umiliarlo e insultarlo, fino alla cima di un albero. Mentre lo innalzavano, Rapamato diceva:

«non vedi, comandante, che la tua armata sta arrivando? Guarda, arriva l’aiuto! Non vedi le tue galere?».

A questo (mentre Mustafà rideva) il Bragadin rispose come poteva,  con voce moribonda:

«Perfido Turco, sono queste le promesse che mi hai giurato sulla tua testa, che hai firmato negli accordi di resa, scritte e ufficializzate con il sigillo imperiale del tuo Signore, e che hai confermato chiamando Dio a testimonianza della tua parola? Quale lode e gloria potrai vantare davanti al tuo Signore per non essere riuscito ad espugnare una città senza rinforzi, pur avendo a disposizione il tuo grande valore e un enorme numero di uomini e mezzi? Anzi, dopo averla ricevuta per resa, le hai inflitto tutte le torture possibili? Dio faccia che queste parole possano risuonare in tutto l’universo e che tutti conoscano la crudeltà dei turchi. Anche quello che non posso far conoscere, lo farà la fama, che porterà a tutti l’esempio della mia morte e di quella orribile toccata a tanti innocenti, umiliati da oscenità e insulti, affinché sia certo e documentato che non bisogna avere fede in quelli che non ne hanno e che sanno eccedere solo in crudeltà.»

Dopo averlo tenuto sospeso per mezz’ora, Rapamato ordinò di abbassare il Bragadin. A malapena riusciva a reggersi in piedi, ma continuò a subire maltrattamenti, frustate e spintoni. Mentre continuavano a trattarlo in modo così orribile, usò le parole di Anassarco:

«Straziate il mio corpo, ma non il mio coraggio. Potete fare a pezzi il mio corpo, ma non toglierete alcuna forza al mio spirito.»

Fu portato infine nella piazza principale di Salamina, nel luogo destinato all’ultimo supplizio, e, spogliato dei vestiti, venne legato alla colonna della bandiera. Il carnefice (che cosa indegna!) iniziò spellarlo vivo cominciando dalla schiena e dalle spalle, poi passò alle braccia e al collo, mentre quel tiranno lo scherniva: «Convertiti all’islam, se vuoi salva la vita.» Il resistente martire non rispose, ma innalzato il capo al cielo disse: «Gesù Cristo mio Signore, abbi misericordia di me. Nelle tue mani raccomando il mio spirito. Accogli, mio Dio, questa mia misera anima, e perdona questi, che non sanno quello che fanno

Strappata la pelle dal capo e dal petto, ed arrivati ormai all’ombelico, quell’uomo clemente e tenace, fermo nella fede in Gesù Cristo, volò a quest’ultimo, del quale aveva testimoniato la divinità con il suo santo martirio, colui del quale era stato il testimone più insigne con il suo sangue. Fuggì quindi da questi legami terreni, da questo carcere mortale e da quel corpo che aveva custodito il suo spirito con tanta gloria. E tutto questo per la scelleratezza sacrilega di Mustafà, per la sua palese violazione dei giuramenti e per le false accuse rivolte al Bragadin.

Il capo del comandante veneziano fu appeso a una forca nella piazza centrale, e il suo corpo diviso in quattro parti che furono esposte nei luoghi principali della città. Il cuore e le viscere furono messi in un quinto luogo.

La pelle fu riempita di paglia e vestita con il suo abbigliamento usuale. La testa fu coperta con un cappello rosso e adattata in modo da sembrare quella di una persona viva. Il fantoccio del Bragadin fu poi portato in giro per tutte le strade della città sopra un bue o una vacca, con due turchi che lo accompagnavano come fossero servitori, uno dei quali gli teneva addirittura l’ombrello sul volto. Per terrorizzare ancora di più il popolo, il fantoccio era accompagnato da un grande strepitio di tamburi e trombe e da queste parole, pronunciate a voce alta:

«Ecco il vostro signore: venite ad osservarlo, salutatelo, veneratelo, così che possa concedervi il premio per le  vostre molte fatiche e per la vostra fedeltà.»

Il cadavere impagliato, assieme alle insegne della città e alle teste di Astorre Baglioni, Luigi Martinengo e Andrea Bragadin, fu trasportato su una galera e, per ordine del feroce Mustafà, fatto vedere a tutte le genti di Siria, Cilicia e di altre province marittime.

Ricorderò poi un fatto certamente prodigioso, ma confermato da molti e scritto da alcuni storici, non ultimo Pietro Giustiniani che lo riportò nelle sue memorie. Assicurano che la testa di Marcantonio Bragadin, infissa su una lunga picca e collocata su una forca, emise una fiamma lucente, simile ai raggi del sole, durante le tre notti in cui fu esposta, e che da essa proveniva un odore soave e meraviglioso.

I miseri resti di Bragadin, dopo il giro dell’Impero Ottomano, finirono nell’Arsenale di Costantinopoli. Nel 1580 però, il marinaio veneziano Girolamo Polidori, sfruttando le conoscenze di uno schiavo cristiano, riuscì a trafugare le spoglie del comandante veneziano e riportarle a Venezia, dove furono accolte in modo trionfale.

Il martire di Famagosta riposa oggi nella quiete della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, poco lontano dalla casa in cui nacque.

Non è oggetto di questo articolo narrare i fatti e l’esito, ben conosciuto, della Battaglia di Lepanto di pochi mesi dopo; resta il fatto che i marinai veneziani e cristiani tennero sempre a mente (“ricordatevi Famagosta”) la necessità di vendicare Bragadin, Baglioni e gli Altri.

Quanto a Mustafà Pascià, bosniaco di nascita e turco di adozione, ebbe bisogno di un’altra campagna, questa volta contro la Georgia (1578), per ottenere il tanto desiderato titolo di gran vizir, solo a fine aprile 1580, ormai ottantenne. Morì tre mesi dopo.

Cipro, che a partire dal XIII secolo aveva conosciuto un incredibile sviluppo economico e sociale, conobbe un crollo demografico e commerciale da cui non si riprese mai più.

assedio di famagostaFamagosta nell’estate del 1571, completamente circondata dall’esercito e dalla marina ottomani.

Eppure dentro di sé pensava che con i turchi, presso cui regnava una grande crudeltà e dove non c’era fede, la pace non potesse essere difesa con la sola ragione. Ricordava però che i turchi avevano rispettato le condizioni di resa dopo aver espugnato Rodi [13] nella guerra in Ungheria e anche in altre circostanze. Aveva quindi ragione di credere che, nel caso si fossero concordate delle condizioni oneste, avrebbero mantenuto la parola anche con lui.

Nel frattempo i turchi avevano innalzato di nuovo la bandiera per le trattative, e i cristiani avevano risposto in modo affermativo innalzandola a loro volta. Mustafà inviò quindi un nunzio per comunicare al comandante che, se fosse stato d’accordo, avrebbe spedito un suo incaricato per trattare la resa.

Accettata la richiesta, da entrambe le parti si emisero editti che sancivano la pena di morte per chiunque avesse attaccato il rispettivo nemico. Dopo i convenevoli, il legato di Mustafà fece il suo ingresso in città e chiese quali fossero le condizioni richieste dal Bragadin. Fece inoltre capire che il seguente giorno sarebbe giunto un altro incaricato dotato dell’autorità di concedere ai cristiani, una volta consegnati gli ostaggi che questo tipo di trattativa esigeva, piena facoltà di stabilire le condizioni.

Ohime! con quanto dolore del Bragadin, con quanto fastidio del Baglioni, e con quante lacrime, sospiri e lamenti della città sofferente e di tutto il popolo, era giunto il momento di arrendersi al nemico!

Il 5 agosto gli ostaggi dei turchi furono introdotti con tutti gli onori, e furono consegnati come tali Ercole Martinengo e Matteo Colzio di Salamina, i quali furono ricevuti con riverenza dal figlio di Mustafà e condotti presso il padre.

Le condizioni offerte furono consegnate dal Bragadin, ed il legato di Mustafà, ch’era uno degli ostaggi, giurò sulla sua testa che tutto quanto stabilito dal Bragadin sarebbe stato rispettato.

Di seguito le condizioni dettate.

In primo luogo, non doveva essere arrecato danno agli Italiani e, abbassate le bandiere, doveva essere loro permesso di uscire al suono del tamburo con tutte le batterie al seguito e di imbarcarsi con tre cavalli, le armi, le mogli, i figli e tutte le loro cose sopra tre navigli turchi, cioè tre galere, una nave e altre otto imbarcazioni più piccole. Dovevano inoltre essere riforniti delle provviste necessarie e lasciati partire per Candia.

Secondo, che fosse permesso anche ai Greci e agli Albanesi di partire con gli Italiani, e agli Italiani di rimanere, qualora lo avessero voluto.

In ultimo, che i Greci rimanessero liberi, fosse loro preservata la vita, le facoltà e l’onore, e fossero loro concessi due anni per decidere se partire o restare. Passati questi, quelli che rimanevano dovevano poter vivere liberamente nella loro casa, seguire il loro rito religioso, e possedere i loro beni; se alcuni di loro avessero voluto partire, si chiedeva che gli fossero fornite imbarcazioni adeguate e si garantisse il loro viaggio sino ai luoghi prescelti per vivere. Queste furono le condizioni che il Bragadino spedì con sue lettere a Mustafà, affinchè questi le sottoscrivesse. Mustafà accettò tutte le condizioni, ad eccezione di quella relativa alle batterie.

Su questo punto fece specificare, per mezzo di un suo giannizzero, che non voleva far rimanere la piazza senza cannoni, ma che ne avrebbe lasciati loro cinque per decoro e per la loro difesa.

La cosa fu esaminata con diligenza dal Bragadin, il quale decise che bisognava adeguarsi alla volontà di Mustafa, e perciò, apportata detta modifica, le condizioni furono rispedite a quest’ultimo. Dopo averle lette, Mustafà le trovò onestissime e le firmò subito.

Dopo aver apposto il sigillo di Solimano Imperatore dei Turchi, le consegnò assieme alle lettere che consentivano la partenza degli abitanti di Salamina. Vi dichiarava che il Bragadin, assieme a tutto il presidio di Salamina doveva essere condotto a Candia incolume e, in caso di incontro con le truppe turche, quest’ultimo non doveva essere aggredito, ma assistito nel viaggio. E anche nel caso di incontro con i corsari, il suo viaggio non doveva essere impedito, pena l’indignazione di Solimano. Consegnò inoltre due lettere firmate di sua mano, dirette una al comandante, l’altra al popolo di Salamina, che recitavano così:

«Mustafà, supremo comandante dell’esercito turco, a Marcantonio Bragadin, geniale comandante di Salamina.

Non posso dirti quanto desideri conoscerti di persona dopo aver ammirato e sperimentato per molto tempo il tuo valore. Per questo quando dirò a Solimano, il nostro grande e potente re, di essere stato testimone della tue capacità, riceverai di certo molte ricompense. Pur avendo preso ed espugnato molte città ben fortificate, non ho mai trovato tante difficoltà come qui a Salamina, a causa dell’ immenso valore tuo e di tutti gli altri comandanti, cui riserverò la benevolenza che merita il vostro coraggio.

State quindi tranquilli, e se avete bisogno di qualcosa che è a disposizione di questo esercito, state certi che, ove possibile, vi accontenterò in tutto e per tutto

«Mustafà, supremo comandante, a tutto il popolo di Salamina.

Vi confermo, abitanti di Salamina, che testimonierò e racconterò il vostro valore a Solimano, nostro sovrano invincibile, nel nome del quale vi prometto piena libertà di restare sotto il suo impero, mantenendo sia la vostra religione che i vostri beni, o di partire in sicurezza con le vostre cose. Mantenete fede alla vostra resa, e aspettatevi da me tutta la gentilezza e la benevolenza possibili.»

Queste lettere diedero grande conforto alla popolazione, specie quando si vide che Mustafà stava iniziando a fare ciò che aveva promesso.

L’11 agosto infatti mandò al porto tre galere, una nave e alcuni navigli più piccoli, nei quali ordinò che si iniziassero a imbarcare donne, bambini, ammalati e i bagagli.

Allora i turchi e i cristiani iniziarono a mescolarsi come fossero amici, i primi meravigliandosi del piccolo numero dei secondi, questi ultimi invece dell’enorme numero dei turchi. Sembrava incredibile che così pochi soldati avessero potuto fronteggiarne moltissimi e supportati dalla forza di tanti uomini.

Raccontava uno degli assedianti, un aiutante di Mustafà, che erano stati portarti a Cipro duecentocinquantamila soldati, fra i quali vi erano settemila cavalli e quarantamila guastatori; che ad espugnare Salamina c’erano in tutto centosessantamila fanti, settemila cavalli, quarantamila guastatori; che si erano eretti diciassette forti per battere la città con l’artiglieria; che si erano adoperati centoquattordici cannoni, cioè settanta nell’esercito, quaranta nelle galere, e quattro di smisurato calibro, chiamati basilischi; che si erano sparate sessantamila cannonate in settantacinque giorni, parte con palla di ferro, parte caricate con i sassi; che si erano scavati nove cunicoli più grandi di tutti quelli scavati nei precedenti assedi. Assicurava che erano ottantamila  i Turchi periti nell’assedio di Salamina, ma che erano stati sostituiti da altri uomini provenienti dai luoghi confinanti in modo che le loro perdite non fossero palesi.

Diceva che nell’ esercito turco c’erano cinque comandanti, ciascuno preposto a un quinto delle truppe, e con il compito di colpire un punto specifico: Mustafà, supremo comandante, Abraimo Pascià di Bitinia, Musaferro di Leucosia, Assano di Cilicia, Scandero di Comagene, che era stato ucciso da un colpo di cannone. Diceva inoltre che era straordinario che così pochi avessero difeso per così tanto tempo un luogo così grande.

Già il 12 di agosto si cominciarono a caricare le truppe sulle imbarcazioni e si portarono nel porto gli stendardi abbassati e le batterie. Si caricarono sulle medesime imbarcazioni i tre cavalli ciascuno, come previsto dalle condizioni di resa. Anche il 14 agosto si continuarono le operazioni di imbarco.

Il 15 il Bragadin mandò Nestore Martinengo presso Mustafà perché gli comunicasse che, se per lui andava bene, gli avrebbe spedito le chiavi della città, lasciando la stessa nelle mani di Lorenzo Tiepolo fino a quando i turchi non l’avessero occupata; e al tempo stesso lo pregò di mandargli altre imbarcazioni per le rimanenti truppe cristiane, e che non fossero infastidite dai turchi.

Mustafà rispedì indietro Martinengo, affinché avvertisse il Bragadin che gli avrebbe fatto piacere averlo al suo cospetto assieme agli altri capitani che si erano dimostrati tanto valorosi nella difesa di Salamina. Nella ventesima ora di quel giorno spedì un giannizzero per informare i turchi che non si doveva fare del male al Bragadin, comandare che fossero messe a disposizione dei cristiani altre due navi e comunicare allo stesso Bragadin di recarsi presso di lui non appena volesse.

Per questo il Bragadin, allo scoccare della ventunesima ora, dopo aver lasciato Salamina nelle mani del Tiepolo per andare a portare a Mustafà le chiavi della città, uscì con gli altri principali personaggi: Astorre Baglioni, supremo comandante delle milizie, Luigi Martinengo, comandante dell’artiglieria, Andrea Bragadin, castellano, Giovanni Antonio Quirini, patrizio veneto, Astione cavaliere, comandante delle truppe italiane, Ettore, comandante veneto, Francesco Stracchio da Urbino, anch’egli capitano, e molti altri. Questi vennero accolti da uno dei luogotenenti di Mustafà con molti cavalli. Tutti li salutarono con grandi riverenze e posero ciascuno dei cristiani fra due a cavallo. Poi li condussero tranquillamente alla grande tenda di Mustafà. Avendo portato le chiavi, la città si era arresa..

Autore: Gabriele Campagnano

Fonte: Zhistorica

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