La storia di Marcantonio Bragadin, governatore veneziano di Cipro, del comandante Astorre Baglioni, e della loro difesa della fortezza di Famagosta, rappresenta uno degli eventi più significativi della lotta fra ottomani e veneziani per il controllo del Mediterraneo orientale. Pochi mesi prima della famosa Battaglia di Lepanto (1571), un manipolo di soldati europei difese Famagosta per un anno nel corso di un assedio che vide schierati, fuori dalle mura, quasi 100.000 soldati e guastatori ottomani.
Il rapporto fra Venezia e Cipro iniziò a essere sempre più stretto a partire dalla metà del XII secolo. In particolare, già nel 1139 era presente a Limassol, nella parte meridionale di Cipro, una compagnia mercantile veneziana. Dopo tre secoli tormentati, in cui bizantini e arabi si erano contesi l’isola e spartiti la tassazione sugli abitanti, nel 958 Cipro fu riconquistata in via definitiva dall’Imperatore Niceforo II Foca. E nel 1147 fu proprio un Imperatore bizantino, Manuele I Comneno, a includere Cipro fra i luoghi in cui i veneziani avevano diritto di commerciare liberamente. Meno di mezzo secolo dopo, nel 1192, Cipro finì in mano ai Lusignano, con i quali i veneziani ebbero inizialmente qualche problema. Ciononostante, i traffici della Repubblica a Cipro continuarono e, nel 1306, ricevettero i crismi dell’ufficialità grazie a un’intesa firmata nella città di Nicosia, capitale del Regno. Tale documento concesse ai veneziani la possibilità di avere proprie piazze commerciali, possedimenti e un proprio giudice.
I rapporti fra Lusignano e Venezia si strinsero ulteriormente nelle decadi successive, in particolare grazie ai continui finanziamenti concessi da quest’ultima ai regnanti ciprioti (basti pensare che il riscatto di Re Giano, catturato nel 1426 dai mamelucchi, fu pagato dai veneziani), e portarono al matrimonio fra la nobile veneziana Caterina Cornaro e Re Giacomo II di Cipro. Ovviamente, alla morte di quest’ultimo, avvenuta nell’agosto 1474, Venezia prese, di fatto, il controllo dell’isola. Visto che la nostra trattazione riguarda Famagosta, o Salamina che dir si voglia, bisogna ricordare che questa rimase in mano ai genovesi dal 1372 al 1464, resistendo a ben cinque assedi dei sovrani di Cipro.
Assieme all’isola, i Veneziani ereditarono anche un tributo di ottomila ducati l’anno da pagare al Sultano come ulteriore (e ricorrente) prezzo per la liberazione del citato Re Giano. Come già spiegato nel box qui sopra, il dominio veneziano su Cipro non solo diede un forte impulso alla demografia, ma fece crescere il numero di vascelli in entrata e uscita dai porti isolani.
Oltre alle navi onerarie, attraccavano e si rifornivano anche le galee da guerra dei Cavalieri di Malta e dei corsari provenienti da ponente. La presenza di queste ultime imbarcazioni rendeva poco sicura la navigazione ottomana nel tratto di mare fra Cipro e le coste egiziane, tanto che le lamentele dei musulmani che viaggiavano verso la Mecca arrivarono fino ai piani alti dell’Impero Ottomano.
A Costantinopoli, Selim II, forse convinto da alcuni pascià (e da Giuseppe Nasi), decise che era giunto il momento di mettere fine al dominio veneziano su Cipro. In realtà, Selim II aveva molti problemi a dimostrarsi all’altezza del padre, morto nel 1566 appena un anno dopo la sconfitta inflittagli da La Valette a Malta. Chiamato Sarhoş (l’Ubriacone) e probabilmente omosessuale, vide nella conquista di Cipro un’ottima occasione per sollevare la sua reputazione. Ad ogni modo nel 1568, chiusa (temporaneamente) la contesa con gli Asburgo nei Balcani, Selim II poté pianificare la presa del dominio veneziano in relativa tranquillità.
Nei primi giorni del 1570, il bailo di Venezia nella capitale ottomana, Marcantonio Barbaro, avvisò il Senato che iniziavano ad esserci voci insistenti su una spedizione contro l’isola e movimenti sospetti fra gli alti gradi militari.
Il 13 gennaio 1570, Selim II bloccò le navi veneziane a Costantinopoli, i traffici della Repubblica nell’area, e mandò alcuni contingenti in Dalmazia per infastidire il confine veneziano. La sua idea era quella di dimostrare quanti danni potesse arrecare a Venezia e alla sua economia se quest’ultima non gli avesse concesso Cipro. Circa un mese dopo, Selim II inviò un ambasciatore a Venezia per procedere con una richiesta formale: «Noi vi chiediamo Cipro, e ce la darete con le buone o con le cattive; e guardatevi bene dall’attirare su di voi la nostra orrenda spada, perché sarà guerra crudele su tutti i fronti; e non vi fidate del vostro tesoro, perché lo faremo passare e correre via come un torrente.»
Il senato veneziano rifiutò con forza, e l’ambasciatore turco supplicò di poter uscire da una porta segreta poiché temeva di essere linciato dal popolo veneziano. Nei mesi successivi vi furono le solite scaramucce, sequestri di beni e altre ritorsioni fra turchi e veneziani.
Poi, nel luglio 1570, l’esercito ottomano, guidato da Lala Mustafà Pascià, sbarcò a Cipro. Dopo tre settimane di razzie e studio del territorio, il 22 luglio Mustafà fece muovere le truppe verso Nicosia dopo aver mandato 500 cavalieri a impedire i collegamenti fra questa e Famagosta. Così facendo, operò in modo opposto a quanto consigliato da Pialì Pascià, comandante delle forze navali ottomane.
Il 9 settembre, per una serie di errori di valutazione da parte del comando veneziano, la fortezza di Nicosia, capitale del Regno, cadde dopo soli 45 giorni di assedio. Ventimila uomini furono massacrati nel giro di pochi giorni, mentre i sopravvissuti furono ridotti in catene e spediti a Costantinopoli.
Dunque tutto il regno di Cipro fosse sotto il controllo dei turchi a eccezione della sola Salamina; e fu lì che si portò Astorre Baglioni [1], supremo comandante della milizia, poiché temeva che i nemici l’avrebbero assediata prima di Leucosia, ora detta Nicosia, cosa che però non accadde.
Il governo civile di Salamina era affidato a Marcantonio, nato dalla famiglia Bragadin, la quale – se proprio non vogliamo credere che abbia preso il nome dal celeberrimo fiume africano che lambiva la città di Utica, chiamato Bragada, nelle cui vicinanze Attilio Regolo si dice abbia ucciso un enorme serpente lungo centoventi piedi (e infatti si congettura che le origini della famiglia risalgano proprio a Regolo) – è comunque una delle famiglie più nobili di Venezia.

Mappa di Famagosta con l’esercito otomano schierato all’esterno (fonte: wiki)
Dotato di un grande intelletto, egli dimostrò di avere grande forza fisica e d’animo e di essere un uomo ingegnoso, pronto, buono e probo. Ma egli era soprattutto devoto a Dio e attaccato alla sua patria a tal punto che, qualora ce ne fosse stato bisogno, sarebbe morto mille volte per la difesa del culto di Dio, della religione cristiana e della patria. Perspicace nel prevedere, pronto a eseguire, indefesso nel vigilare, Marcantonio era davvero nato per governare le cose della Repubblica Veneziana.
Quando, il primo giorno di maggio dell’anno 1149 dopo la fondazione di Venezia, ovvero il 1570 dopo Cristo, fu annunciata in tutta Cipro l’imminente guerra fra turchi e veneziani, il Bragadin era privo di denaro, senza il quale i saggi reputavano impossibile porre in essere tutti gli adempimenti necessari alla difesa, e anche a corto di oro ed argento, già utilizzati per pagare fanteria e cavalleria.
A causa della distanza dagli altri possedimenti veneziani, non poteva neanche sperare in un opportuno aiuto finanziario, e quindi rinnovò l’antico uso di battere moneta con quello che aveva a disposizione.
Sappiamo infatti che Domenico Michiel principe e ventiseiesimo doge di Venezia, nella spedizione asiatica fatta contro i turchi in Siria per salvaguardare gli interessi cristiani, si ritrovò sprovvisto di denaro. Per pagare marinai e soldati, ordinò che fosse istituita una moneta in pelle e la distribuì al posto di oro e argento a tutti gli stipendiati con la promessa che, una volta tornati in città, avrebbero potuto cambiarla con del denaro vero.
Così il Bragadin per prima cosa volle costituire una tesoreria, e ordinò di battere giorno e notte monete di rame, alcune da dodici assi, altre da quattro quadranti, con cui pagò la fanteria italiana, greca, la cavalleria e tutti quelli che facevano parte del presidio. Emanò quindi un’ordinanza che prevedeva la pena di morte per coloro che si fossero rifiutati di ricevere quel tipo di moneta in pagamento [2].
In questo modo riuscì a risolvere lo stato di grave necessità come se avesse avuto a disposizione vere monete d’oro e d’argento.
Inoltre il giorno 4 giugno spedì per tutto il contado di Salamina delle persone che, in modo veloce e ordinato, raccogliessero e riportassero in città qualsiasi cosa necessaria a sopravvivere in condizioni di assedio: frumento, vino, olio, formaggio, legna, carbone, pecore e altro. Inoltre, per non lasciare nulla al nemico, il Bragadin ordinò di mettere a ferro e fuoco tutto ciò che non poteva essere riportato in città. E il suo ordine fu subito eseguito.
All’interno della città, ordinò alla popolazione di porre in essere tutto il necessario alla difesa di Salamina, cioè aumentare, diminuire, dilatare, distruggere, abbattere, restringere, appianare i luoghi a seconda della necessità, restaurare gli antichi baluardi, erigerne di nuovi nei punti più deboli, e provvedere alle altre cose che un preside dotato di grandi capacità riteneva necessarie.
Si occupò di spronare i lavoratori a compiere le operazioni, promettendo con grande eloquenza non solo lodi e premi dalla Repubblica Veneta, ma anche una ricompensa divina.
Di certo l’eloquenza era propria del genere e del sangue veneti, tanto che sia i fanciulli e gli adulti senza esperienza, sia gli uomini e i vecchi avvezzi alle discussioni nel foro e nel senato, erano eloquenti in modo mirabile. E tuttavia non si può sottolineare abbastanza quanto in quella fosse eccellente il Bragadin, cui la stessa necessità suggeriva le parole. La veemenza della sua orazione proveniva infatti solo dalla forza della sua esposizione, e non dal suo ingegno o da una capacità tecnica acquisita.
Come aveva dimostrato altre volte questa grande eloquenza, così il 14 luglio quell’eccezionale comandante, nella piazza dove il religiosissimo vescovo di Salamina, Girolamo Ragazzoni, aveva celebrato la messa, dopo la consacrazione ricevuta dallo stesso vescovo, e dopo una breve esortazione fatta da quest’ultimo al popolo perché si adoperasse fortemente, con coraggio e fedeltà per Gesù Cristo e per il suo principe, quel comandante, dicevo, giurò solennemente di affrontare ogni pericolo per la difesa della religione cristiana e per la conservazione della Repubblica, di dare la vita, se ce ne fosse stato il bisogno, e di difendere fino alla fine un popolo tanto fedele e onorevole.
“Giuro per la Santissima Trinità, Dio padre, Dio figlio, Dio Spirito santo, giuro sul sacrosanto Vangelo dei quattro Evangelisti Marco, Matteo, Luca, Giovanni, giuro per la santissima croce di Cristo, sotto il cui vessillo militiamo, che disprezzerò e non avrò considerazione per i pericoli che dovessero presentarsi, non tralascerò alcun adempimento che possa sostenere o migliorare le possibilità della causa cristiana, e che morirò io piuttosto che il mio popolo, il quale in nome di Cristo affronta ogni pericolo e serve la Repubblica in modo così pronto e fedele. Allo stesso modo giurano insieme a me l’inestimabile Lorenzo Tiepolo, prefetto di Pafo, e l’eccellentissimo Astorre Baglioni, comandante in capo di tutta la milizia, e tutti gli altri virtuosi comandanti dei quali non solo potete vedere i volti, ma anche udire le voci.
Lodo voi, abitanti di Salamina, e con gratitudine continuerò a chiamarvi uomini forti e di grande animo; vi esorto con ogni mio potere affinché rimaniate saldi nelle convinzioni che avete ora: difendere i vostri padri, le mogli, i figli, le case, la patria vostra, spargere il vostro sangue, qualora occorresse, per la difesa della patria, dimostrarvi attaccati al vostro principe nel proteggere con tutte le forze voi stessi e le vostre cose, reprimere l’impeto e il furore dei feroci nemici che pensano solo alla crudeltà, alla strage e a godersi la distruzione dei Cristiani; e infine conservare alla Repubblica Veneta quella fedeltà che portate sempre con voi.
Per queste ragioni, mentre ora si è celebrato il sacrificio di Gesù Cristo, e abbiamo preso la Sacra Eucarestia, a voi tutti prometto che non ometterò alcuna cura, fatica, vigilanza, autorità e consiglio che possa servire alla vostra sicurezza. E testimonierò la vostra fedeltà al Senato Veneto, affinché questi possa ricompensarvi con grandi lodi e premi.”
Grazie a questo discorso emozionante fu acclamato in modo vigoroso e, innalzate le mani, subito tutti giurarono fedeltà: uomini, donne, fanciulli, fanciulle, cavalieri, fanti, cittadini ed anche forestieri. Una gran moltitudine non solo nelle strade, nei portici e nelle piazze, ma anche alle finestre.
Due giorni dopo la caduta di Leucosia, avvenuta, come abbiamo già raccontato, il 9 settembre 1570, arriva a Salamina un contadino cipriota spedito da Mustafà. In una sacca portava la testa mozzata di Nicolò Dandolo, reggente di Leucosia, e lettere di minaccia: se Salamina non si fosse arresa, Mustafà avrebbe fatto trucidare tutti gli abitanti e distruggere ogni cosa.
Davanti alle minacce, il Bragadin non si spaventò, ma fu anzi pervaso da un odio e un’ira ancora maggiori, esortò tutti perché fossero forti e di animo saldo. Ricordò che combattevano per la fede cristiana, per la libertà e per la vita.
Dopo chiese a tutti di mettere il massimo impegno nell’adempiere i compiti assegnati a ciascuno in vista della difesa della città; di sudare, lavorare, affrontare tutti i pericoli, colpire i nemici, metterli in fuga, distruggere le loro orde, far pagare al nemico le sue crudeltà; non permettere di lasciare impunita la distruzione di una città bella come Leucosia, la morte di tanti cristiani, massacrati come pecore, la decapitazione di un governatore così forte e generoso, l’uso di tanta superbia ed arroganza. Nessuno doveva arrendersi alle minacce di morte e massacro provenienti dai Turchi e finire nella miseria della schiavitù.

Le fortificazioni di Nicosia [3]. Come ricorda il Riccoboni, se ci fosse stata migliore concordia e strategia fra gli ufficiali preposti alla sua difesa, sarebbe stata quasi inespugnabile.
Le lettere di Mustafà furono di questo tenore:
«A Marcantonio Bragadin, comandante di Salamina.
Prendi la testa della persona di cui, se vorrai imitarne l’ostinazione, imiterai anche la morte, e andrai incontro a un simile e peggiore trattamento. Ti comando un’immediata resa della città se non vuoi che avvenga a Salamina lo stesso massacro avvenuto a Leucosia, se non vuoi che io faccia distruggere le mura dalle fondamenta, e se non vuoi che tutti gli abitanti siano trucidati in modo orribile. Ti auguro del bene invece, se vorrai sottometterti al sacro e augusto potere del mio tremendo signore, piuttosto che resistere invano alla sua invincibile potenza con gran danno tuo e degli altri.»
Bragadin rispose alle lettere in questo modo:
«Conosciamo quanto basta la tua scelleratezza, e speriamo che la vendetta divina ricada su di te. Non temiamo le tue minacce, e proteggendo Dio le nostre armi, se non ci saranno altre cose a difendere la nostra vita e la nostra libertà, lo faremo con le nostre mani. Non ti cediamo la città, perché è un qualcosa che non possiamo e non dobbiamo fare per mantenere l’onore della Repubblica. Faremo quanto possibile per evitare che tu possa esercitare su di noi la tua crudeltà. Ti auguro del bene, se ti dimostrerai degno di quella bontà che proviene dalla mano divina.»
Mustafà spedì lettere dello stesso tenore a Cerina, al castellano Giovanni Maria Mudazzo, e al governatore della milizia Alfonso Palazzo Bresciano, e perché quelli si spaventassero, le spedì al popolo Cerinense con il prefetto Paolo Vastio incatenato al cavallo con due teste mozzate.
Costoro risposero che non potevano prendere alcuna decisione senza prima consultarsi con Salamina, quindi Mustafà concesse loro cinque giorni per risolvere la questione e mandò loro un contadino con una carovana per favorire il tutto. Mudazio spedì il contadino a Salamina (14 settembre) con lettere scritte dallo stesso castellano, dal governatore della milizia e da tutti gli abitanti di Cerina, dove si diceva che avrebbero difeso la rocca sempre, fino alla morte, e che lo avrebbero dimostrato con le parole e con i fatti. E pregavano che, nel caso si fosse deciso in altro modo relativamente alla difesa della città, gli fosse data risposta a breve. Il Bragadin rispose subito che già conosceva la loro somma fede e resistenza, e che da loro non poteva aspettarsi altro che una grande e veemente difesa.
Li istruì poi su come dovessero agire, dimostrandosi molto soddisfatto della loro forza d’animo. I grandi proclami provenienti da Cerina non furono però seguiti dai fatti. Con grande delusione del Bragadin, il 16 settembre i Cerinensi si arresero ancor prima di ricevere la sua risposta!
Di conseguenza, l’intero esercito turco arrivò per assediare Salamina il 21 settembre, e allo stesso modo vi giunse tutta la flotta nemica con le spoglie della presa Leucosia. Sappiamo però che il 5 ottobre Fulsidonio Candiotto arrivò a Salamina con una celoce [4]. Era stato spedito dalla flotta veneziana per annunziare che presto sarebbe arrivato il soccorso e che Mustafà, una volta venutone a conoscenza e temendo l’arrivo dell’armata cristiana, si sarebbe ritirato dall’assedio.
Nel mese di novembre un certo turco, di bell’aspetto e capitano di cavalleria, riparò a Salamina, conducendo con sé una nobildonna di Leucosia, a quanto pare figlia di Giovanni Soromani, molto bella, e tale che tutti quelli che la guardavano rimanevano ammaliati dalla sua bellezza.
Il Bragadin venne a sapere che il turco era fuggito dopo avere ucciso un commilitone rivale in amore, poiché voleva farsi cristiano in nome dell’amore che provava per quella donna. Egli spedì il turco nella rocca, diede ad esso un interprete il quale lo istruisse sulla santissima fede cristiana, e fece portare dinnanzi a sé la donna, veramente di una bellezza difficile da superare, che poi impiegò per custodire l’anziano medico Giovanni Battista Salodiense.
Ma poco dopo il feroce turco uccise l’interprete assegnatogli poiché questi non voleva condurlo alla sua prigioniera. Il Bragadin ordinò quindi che fosse condannato a morte, e che quella bella fanciulla, ammirata da tutti, fosse condotta da lui. La fece quindi portare in luogo tranquillo, in modo che potesse vivere onestamente.
Il comportamento del Bragadin pone il dubbio se egli sia stato più giusto nel punire un uomo empio e impuro, o più capace di controllare sé stesso nell’astenersi da una femmina tanto bella e acclamata. Egli seguì l’esempio di Publio Africano maggiore che, dopo aver espugnato Cartagine, grande città della Spagna, lasciò inviolata la vergine bellissima e meravigliosa, figlia di un nobile iberico, che condussero al suo cospetto; e anche il Grande Alessandro che, avendo catturato, dopo gran battaglia, la moglie del re Dario e la sorella di lui, che erano bellissime, non volle vederle, e proibì che gli fossero condotte innanzi, forse perché conosceva la sua mancanza di controllo e intemperanza al punto da non essere sicuro di potersi astenere nel caso le avesse viste. Sono dunque più meritevoli di stima coloro che si astennero anche dal solo vedere quelle donne, ovvero coloro i quali non ebbero alcuno stimolo voluttuoso alla vista di bellezze leggendarie e non solo si astennero, ma rimasero addirittura tranquilli come Scipione e il Bragadin?
Crescendo la necessità di ricevere aiuto, il sempre attento Bragadin decise di spedire a Venezia qualcuno che facesse conoscere lo stato di difficoltà in cui si trovava Famagosta e che riuscisse a ottenere l’invio di rinforzi.
Ad assumersi quest’onere furono Girolamo Ragazzoni, vescovo di Salamina, essendosi presentato in sua vece il vescovo di Amatunta, e Nicolò Donati, uno dei capitani di galea posti a difesa di Cipro. Un uomo di grande acume che, assieme a Francesco Trono, altro comandante di galea, aveva catturato un naviglio turco, ricco di armi e vettovaglie, nei pressi del porto di Tripoli.
Questi avevano rotto il ponte turco, attraverso cui le truppe venivano trasportate dalla Cilicia a Cipro, e avevano portato a termine in modo egregio anche altre imprese.
Il 5 novembre 1570 furono così spediti a implorare l’immediato invio di aiuti a Venezia, portando con loro le lettere del Bragadin, del Baglioni e dei cittadini di Salamina.
I veneziani decretarono che una flotta dovesse raggiungere Salamina al più presto. L’incarico fu affidato a Marcantonio Quirini, che doveva portarsi a Cipro con quattro navi onerarie cariche di armi, viveri e altri aiuti, e Marco Quirini – poiché i turchi avevano dislocato diverse galee per impedire i rifornimenti veneziani – furono date dodici galee per fare da scorta nel caso di un attacco nemico. Si sapeva infatti che diverse galee turche erano state destinate a intercettare gli aiuti per Salamina [5].
Partirono dunque da Candia con gli aiuti il 16 gennaio 1571. Mentre si avvicinavano a Cipro, si riunirono e decisero che le navi dovevano seguire una rotta diversa, che era necessario nascondere le stesse galee dietro gli scogli durante la notte, e che bisognava assalire immediatamente le navi turche avvistate. Per questo motivo, vedendo uscire dal porto di Costanzo il comandante Rapamato con sette galee per aggredire le navi onerarie che navigavano verso la costa, al’improvviso Marco Quirini le assalì, e sullo stesso litorale affondò tre galee da guerra cariche di armamenti e mise in fuga le altre.
Aveva stabilito il Bragadin, uomo dalle grandi capacità di prevenzione, di preparare dodici galee per opporle ai nemici nelle vicinanze del porto prima che arrivassero gli aiuti. Spedì quindi una celoce al Quirini per chiedere che, tralasciando l’incarico che si era assunto con grande coraggio, facesse attraccare le navi in porto affinché si potessero sbarcare gli aiuti in città prima che il mare si facesse mosso o qualche altra sfortuna lo avesse impedito. Al Quirini questa sembrò un’ottima idea.
Perciò, con grande felicità di tutti, furono trasportati a Salamina armamenti, viveri ed aiuti. Fra le altre cose c’erano milleseicento soldati e tante altre cose necessarie sia alla materiale sopravvivenza che alla guerra. Mentre il Quirini era in porto, il 26 gennaio colse l’occasione per catturare alcune navi turche e alcuni navigli minori, usate per spedire armi e viveri dall’Esercito ottomano, e le convertì all’uso difensivo.
Ma il 16 febbraio, passato per lo scoglio denominato Gambella, Quirini recuperò alcune munizioni ivi portate dai turchi e se ne tornò a Candia da vincitore [6]. A Venezia poi, dopo l’arrivo del vescovo di Salamina Girolamo Ragazzoni e del comandante di galea Nicolò Donati, dei quali abbiamo parlato, fu decretato l’aiuto di due navi su cui avrebbero trovato posto ottocento soldati, altri apparati bellici e quant’altro necessario.
Fu creato comandante di quelle truppe Onorio Scotto, e il compito di condurre le navi a Cipro fu assegnato allo stesso Nicolò Donato, che si candidò per eseguirlo nel modo migliore. Questi però, intralciato da numerose tempeste e a lungo trattenuto a Candia, avendo compreso che i luoghi che doveva attraversare erano occupati dalla flotta nemica, ritenne necessario fare ritorno a Venezia, dove per questo fu processato ed assolto.
Nella notte in cui il Quirini partì da Salamina con le dodici galee e le quattro navi che avevano portato gli aiuti, altre tre navi attendevano nel porto soltanto il momento di partire. Il Bragadin, pienamente d’accordo con il Baglioni (come devono essere tutti quelli preposti alle gestione della cosa pubblica, e infatti se ci fosse stata una simile concordia fra quelli cui era stato demandato il governo di Leucosia, è opinione comune che la città non sarebbe caduta così facilmente), percorse il perimetro delle mura e ordinò che nessuno lavorasse alle mura la mattina seguente, che tutti stessero con la testa bassa, in modo che non si potessero vedere da fuori, e che aspettassero armati, poiché sarebbero stati avvisati all’improvviso sul da farsi.

La quiete prima della tempesta. Famagosta 1570.
Passò dopo a ricontrollare la fortezza, facendo in modo che le batterie si tenessero pronte. Mandò ad avvisare tutti che nella mattina nè uomini, nè femmine, nè fanciulli si facessero vedere alle terrazze o alle finestre.
Fece in modo che la fanteria italiana e quella greca aspettassero a testa bassa, e che la cavalleria attendesse in sella il nuovo ordine un’ora prima dell’alba. Quindi ordinò che, al primo colpo di cannone sparato dalla rocca, suonassero all’unisono trombe, tamburi e timpani, e che a quel suono tutti dovevano andare alle mura, per colpire i nemici venuti allo scoperto, e la cavalleria doveva effettuare una sortita contro questi ultimi.
I ricognitori turchi a cavallo, che giravano per tenere sotto controllo la città, arrivarono anche nei pressi delle mura, e si stupirono molto nel non notare alcun movimento causato dalla loro avanzata.
Stabilirono perciò di avvicinarsi e, arrivando fino al fossato senza vedere nessuno nè sentire qualcosa, immaginarono che si fossero tutti imbarcati sulle sette navi e sulle dodici galee che erano salpate il giorno prima, abbandonando la città; e dopo essersi meravigliati per questo avvenimento, alcuni si precipitarono da Mustafà per dirgli che Salamina era stata abbandonata, che in città non era rimasto più nessuno e che tutti erano fuggiti a bordo delle navi e delle galee.
Immediatamente tutto l’esercito turco si mosse per entrare in città. Così, al momento opportuno, fu dato il segnale convenuto per aggredire i nemici ed effettuare la sortita della cavalleria. La controffensiva causò una terrificante carneficina di turchi. Ci fu una vera e propria strage degli addetti turchi all’artiglieria e la cavalleria avanzò fino a quando le fu possibile. I cavalli poi, correndo per i campi, mettevano in fuga e inseguivano i turchi, trucidandoli con tale ferocia che non si sa quanti riuscirono a ritirarsi.
Il buon esito dello stratagemma portò negli animi degli assediati una grande felicità, poiché avevano ingannato tanti nemici e il numero di questi ultimi era diminuito. Nel momento di maggior pericolo bisogna avere bene presenti le priorità, quindi è necessario dare particolare attenzione agli uomini chiave per la difesa e la salute della città.
Il Bragadin scelse quindi, fra tutte le truppe, alcuni militari che gli facessero da guardie del corpo, e poiché era necessario che i generi alimentari non finissero subito, fece in modo di custodirli per gli uomini più importanti per la difesa della Repubblica.
Nei quattro quartieri della città nominò quattro patrizi di Salamina e altrettanti prefetti Italiani, perché due di loro, uno di Salamina ed uno Italiano, censissero ogni persona, controllassero le abitazioni e annotassero i beni presenti quali frumento, legumi, vino, olio e aceto, in modo che, conosciuto il numero delle persone e conosciuta la quantità delle cose che vi erano, si stabilissero i razionamenti utili alla città.
Capito che, se non avesse preso qualche decisione sui razionamenti e sulle “bocche inutili”, gli avrebbe dato più problemi la fame che non le armi del nemico, il buon Bragadin, fortemente addolorato e in lacrime, diede un ordine difficile ma necessario: le bocche inutili, una volta private di armi, frumento, farina e vettovaglie varie, dovevano abbandonare la città con i rimanenti effetti personali.
In tutto, fra donne, uomini, vecchi e bambini uscirono dalla città cinquemilatrecentosessanta persone [7]. Il giorno 28 marzo, ottanta galee turche arrivarono a Cipro. Quaranta rimasero al servizio dell’esercito assieme a una nave maggiore, altre più piccole furono usate per portare tronchi ed altre cose necessarie dalla Karpassia. Le navi rimanenti furono destinate a trasportare la fanteria, i cavalli e le munizioni dalla Siria, dalla Cilicia e da altri luoghi vicini.
L’esercito ottomano destava stupore e grande meraviglia. Le sue forze, raccolte in ogni parte dell’impero, superavano le ottantamila unità secondo Pietro Giustiniano. Il Conte Natale ci dice che c’erano sessantamila soldati a caccia di bottino, sessantamila operai, settantamila mercenari e quattordicimila giannizzeri; e che in tutto parteciparono a quella guerra duecentoquarantamila tra fanti e cavalli: settemila cavalieri, centonovantatremila fanti e quarantamila marinari.
Con la presunzione gonfiata da questi numeri, Mustafà fece sapere agli abitanti di Salamina che, se tutti i suoi soldati avessero gettato le loro scarpe nel fossato, lo avrebbero di certo riempito, e non avrebbero avuto problemi a salire sulle mura.
Alla difesa della città c’erano solo tremilacinquecento italiani, quattromila fanti greci, e duecento cavalieri. Il 15 aprile i Turchi iniziarono a scavare una fossa e a tirare su un terrapieno per battere le mura e le fortezze della città con l’artiglieria. [8] Costruirono in tutto dieci forti, con l’obbiettivo di bersagliarla in maniera continuativa.
Pur essendo in pochi, quando potevano gli assediati si riparavano e preparavano le batterie, alle quali era preposto Luigi Martinengo.Il Bragadin passava fra i soldati con grande attenzione. Li lodava, ne sosteneva in modo efficace gli animi, li esortava con forza a dar vita a una grande difesa, e non tralasciava nulla di ciò che un comandante capace e prudente deve porre in essere. Con la sua voce confortava e animava ciascuno ed era ammirevole la forza con cui ciascuno si impegnava nella difesa della città. [9]
Il 16 maggio del 1571, due ore prima dell’alba, i turchi cominciarono a scaricare le batterie contro la città. Un bombardamento devastante, che seminò il panico anche a causa dei boati assordanti. Sembrava quasi si fosse scatenata una tempesta di tuoni e fulmini. Le abitazioni furono distrutte, le piazze e le strade divelte, tanto che i cittadini furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni e a portarsi con le armi alle mura, rimanendovi giorno e notte.
Il Bragadin non cessò di far medicare malati e feriti. Cercava di mantenere un aspetto calmo e un fare risoluto, confortando quelli terrorizzati e pregando tutti di non temere nulla. Bisognava continuare a combattere senza tregua. Il comandante controllava anche i forti, gli mandava rifornimenti, ordinava agli artiglieri di contrattaccare in modo massiccio, tanto che, quando iniziarono a fare fuoco e fulmini sui nemici, si sentì un tal frastuono di artiglieria che sembrava stesse venendo giù tutto il mondo.
Dopo aver bombardato per diversi giorni il centro abitato, i Turchi iniziarono a battere le mura. Colpivano ora in un punto, ora in un altro, da un lato e poi dall’altro. Dopo averle così analizzate, procedettero con cinque cannoneggiamenti generali.
Il 22 maggio tentarono di sorprendere il castello fuori dal fossato ma, andati nel panico per lo scoppio di un cunicolo, si sparpagliarono. In quei giorni poi, un turco disertò ed entrò in città, dicendo di volersi fare cristiano. Il Bragdin seppe da lui che l’esercito turco era terrorizzato dalla notizia che era in arrivo una grande armata cristiana, e anche dal fatto che ormai i morti turchi erano arrivati a trentamila, anche se gli ufficiali turchi erano soliti dichiarare alle loro truppe solo cento morti su mille e viceversa quando parlavano dei cristiani.
A causa della difficoltà che stavano incontrando per prendere Salamina, proponevano ampie condizioni per la resa della città con lettere legate alla punta delle frecce che lanciavano oltre le mura, dirette le une al Bragadin e al Baglioni, le altre ai cittadini, alle quali il Bragadin non volle rispondere.
Il 26 maggio giunse una celoce veneta spedita da Candia, la quale annunziò che gli aiuti sarebbero giunti a breve. Su ordine del Bragadin, il comandante di quest’ultima fu scortato in tutti quartieri della città, affinché facesse sapere all’armata in arrivo in che condizioni disastrose fossero ridotte le case, quanti pochi viveri fossero rimasti, e quanto fosse impellente la necessità di ricevere aiuti. L’arrivo dell’imbarcazione diede modo al Bragadin di rassicurare il popolo, e di esortarlo a tenere duro nella difesa della città grazie alla speranza di un aiuto imminente.
Il 3 giugno i turchi cominciarono riempire la fossa delle mura al bastione, e per mezzo di legni, lana e bambagia misti a terra arrivarono all’altezza delle mura. Dalla città si cercava di ricacciarli, si combatteva e, specie dopo che il Bragadin ebbe promesso un premio a chi riusciva a sottrarre materiali al nemico, s’impediva loro di accumulare terra e si strappava la lana e la bambagia. Ma seguirono sette terribili assalti dei turchi, che fiaccarono in modo pesante i difensori.
Poiché i turchi avevano scavato molti cunicoli verso la città, il 21 di giugno fu appiccato il fuoco ad alcuni di essi provocando gravissimi danni alle mura. Improvvisamente tutto l’esercito turco assalì i forti della città, e scagliò tanti colpi d’artiglieria e proiettili da far pensare che Dio in persona stesse tuonando, folgorando e sconvolgendo tutto.
Il Bragadin allora iniziò a girare per tutto il perimetro dell’assedio, approntando le difese necessarie e risollevando il morale dei soldati. E il Baglioni fece lo stesso. In quel giorno ebbe luogo una battaglia furiosa. I turchi portarono avanti ben sei assalti in cinque ore, ma furono sempre respinti. Alla fine si ritirarono. Per questo, il Bragadin rese grazie ai comandanti e ai soldati per avere combattuto con tanta forza e coraggio. Sottolineò come tutti avessero partecipato alla difesa della città, lodando ed onorando la loro virtù, e si apprestò a rimettere in sesto le brecce nelle mura.
Il 22 giugno un’altra celoce proveniente da Candia portò la notizia che l’armata cristiana sarebbe giunta a Cipro in tempi brevi, confermando con un solenne giuramento che l’aveva lasciata al così chiamato Castelrosso, a otto giorni di navigazione. Questa notizia rianimò tutti, già stanchi e ridotti alla disperazione, con una grande felicità. E diede un importante appiglio al Bragadin per consolare, esortare e rassicurare tutti.
Il 29 giugno i nemici fecero saltare un altro cunicolo, provocando gravissimi danni alle mura, e attaccarono ancora con un impeto terrificante. Per resistere, il Bragadin agiva in da vero condottiero, a parole e con i fatti, visto che iniziò a gettare egli stesso i sassi per spronare i suoi uomini, affamati di onore e dediti alla guerra.
L’attacco si ripetè sei volte per un totale di sette ore, supportato con violenza dal fuoco, diretto sul porto, di tutte le galee turche e dalla loro cavalleria, che devastava la campagna circostante. Un gran numero di turchi perì durante questa fase.
Fino alla fine del combattimento, il vescovo, aiutato da tutti i suoi curiali e dai chierici, sostenne la resistenza, e tenendo in mano una croce con l’immagine di Gesù Cristo, spronò tutti a combattere fino all’ultimo. Chiese inoltre che ai combattenti fossero portati sassi, acqua e tutto il necessario, e le stesse donne di Salamina, matrone, vedove e vergini armate nei modi più disparati, utilizzarono con grande vigore le armi considerate «minori» quali i giavellotti, i sassi e le frecce [10].
Ma i mezzi di sostentamento della popolazione erano allo stremo. Mancava il cibo, così gli abitanti furono costretti a mangiare gli asini, i cavalli, i cani e simili, e bere acqua mista con aceto; il prezzo di una gallina per nutrire gli infermi aveva raggiunto i quattro soldi d’oro e ci voleva molto denaro per acquistare qualsiasi altra cosa.

L’enorme spiegamento di forze (terrestri e navali) ottomane a Cipro
Di conseguenza, l’ultimo giorno di giugno il vescovo con la curia si recò dal Bragadin, e gli consegnò lettere di supplica scritte da tutti gli abitanti di Salamina, le quali recitavano così:
«Vedi, illustre signore, ormai tutto è perduto. Siamo senza aiuti, manchiamo di uomini, i difensori sono quasi tutti morti, le mura sono a terra e ridotte in cenere per una misura pari a cinquecento passi, tanto che ormai riesce a passarci un carro senza problemi. Nella fossa hanno scavato vie sotterranee; a causa dei colpi ricevuti, il muro che circonda la cinta delle mura è diroccato, e hanno eretto un monte di terra che supera le stesse mura. Mancano le riparazioni, mancano le munizioni, quello che ricostruiamo di notte viene distrutto dalle batterie in una giornata. Se restasse una sola speranza che l’armata cristiana fosse in arrivo, e che portasse gli aiuti, non avremmo dubbi a continuare la difesa. Ma se non v’è alcuna speranza di assistenza, ti supplichiamo umilmente di accettare delle oneste condizioni di resa invece di lasciarci vedere il massacro delle nostre mogli, figli e parenti e nello stesso tempo rinunciare alla libertà, all’onore e alla vita. Dio ottimo massimo ti preservi sano con noi.» [11]
Dopo che il Bragadin ebbe letto questa lettera, che gli portò un grandissimo dolore, pregò il vescovo di celebrare la messa e amministrargli la santissima Eucarestia. Essendosi il Bragadin accostato all’altare per riceverla, e fra le altre preghiere avendo egli recitato il santo Vangelo, si inginocchiò ai suoi piedi ed esplose in un pianto dirotto. E mentre le molte persone attorno a lui attendevano la dichiarazione di resa, egli disse:
«Rendo somme grazie a voi tutti, cittadini leali e coraggiosi, per la tanta fedeltà e il valore dimostrati in modo così solerte. Ho avuto modo di conoscere queste vostre qualità in un periodo grave e pericoloso, per cui a voi prometto che sarò buon testimone presso il Doge e il nostro Senato, e che, non appena lo verrà a sapere, vi porgerà i ringraziamenti che meritano la vostra somma virtù e la vostra ammirabile dedizione nei confronti della Repubblica Veneta.
Sono poi convinto che siate a conoscenza del fatto che la Repubblica non ci abbia abbandonati. Pensarlo sarebbe più che assurdo, poichè a breve manderà in nostro aiuto una fortissima armata, numerosa e potente, formata non solo dalle nostre forze, ma anche da quelle del sommo Pontefice e del Re cattolico, che legati da una stretta alleanza stanno per unire le loro armate a quella veneta.
Per questo vi prego e scongiuro, per la fede di Cristo e per la vostra fedeltà e virtù, che vogliate aspettare l’aiuto per altri quindici giorni, e se in questo spazio di tempo non avremo aiuti, allora stabiliremo e faremo ciò che sarà necessario. Non è da dubitarsi che la forza e magnanimità da voi dimostrata in tante battaglie vi permetterà di ottenere buone condizioni di resa quando vorrete ad esse dedicarvi. Agite dunque, generosissimi uomini di Salamina, e cogliete una tanto bella occasione di ottenere una gloria immortale e, se ne avete, lasciatevi alle spalle la paura. Come assicura il supremo comandante della truppa, Astorre Baglioni, la città per molti altri giorni può sostenersi con l’aiuto divino, e la vostra ottima esperienza nelle cose militari dovrebbe confermarlo.
Se ciò non fosse vero, come invece lo è a tutti gli effetti, anche noi che affrontiamo le stesse difficoltà, gli stessi ed altri lavori, gli stessi turni di guardia, e a cui come a ogni altro è cara la vita (come deve essere) propenderemmo per la resa e la consiglieremmo agli altri.
Ma ora sentiamo di dover agire, vigilare e sforzarci per il bene comune, e di difendere la città da crudelissimi nemici, affinché continui a rimanere incolume. Siamo saldi nel primo parere, e speriamo che a breve giungano gli agognati aiuti. Se continuerete la difesa con noi, le vostre ultime fatiche, le vigilie e gli spasimi si convertiranno in felicità e sommo conforto.» [12]
Subito il popolo acclamò le parole dell’amato e generoso Bragadin, e tutti gridarono a voce alta che sarebbero stati pazienti ad attendere non solo quindici, ma ancora venti e più giorni, purchè si potesse difendere la città; e celebrata l’eucarestia ciascuno tornò al suo posto. Il 9 di luglio i turchi cominciarono il terzo assalto generale durante l’assedio di famagosta e lo continuarono per sette ore, e sette volte furono respinti con grande clangore e rovina. A ogni modo, dato il numero smisurato di soldati di cui disponevano, per loro era facile sostituire quelli che restavano uccisi. Nella città invece, la ristrettezza di uomini non permetteva di sostituire le perdite giornaliere, che rendevano i difensori sempre più pochi e più deboli.
Fu fatto saltare in aria un cunicolo nella fortezza per colpire i turchi; ma fu acceso prima che tutti i difensori si fossero portati al sicuro, e quindi tutti quelli che combattevano lì morirono, turchi ed cristiani; il numero dei primi si dice che arrivasse a millecinquecento, quello dei cristiani a centocinquanta. Il comandante ebbe grande dispiacere da questo accaduto, poiché le sue forze diminuivano ancora.
Nel giorno 14 di luglio seguì un quarto assalto. Il Bragadin ordinò che si facesse saltare un altro cunicolo, nel cui crollo perirono settecento turchi e nessun cristiano. Spedì poi una celoce a Candia che annunziasse in quale stato si trovava Salamina, quanto ristretto era il numero dei difensori rimasti e quanto questi fossero a corto di ogni cosa.
Il 14 luglio i turchi appiccarono il fuoco alla porta della curia, e avendo trasportato lì e legato legni di tiglia, che provocano un forte puzzo quando bruciano, con molti fasci di legno, di piante e di travi, accesero un tal fuoco che poteva paragonarsi a un nuovo Etna.
Il comandante cercò di proteggere la porta con un duplice muro. Per spegnere l’incendio mandò anche le botti di vino riempite con l’acqua, ma non ci fu modo di estinguerlo. ll fuoco cresceva mano a mano che i turchi lo alimentavano, e creava così tanto calore, puzza e fumo che gli assediati furono costretti alla ritirata. L’incendio durò alla fine per quattro giorni. Il 16 luglio il vescovo fu ferito al capo e alla gola da una palla di cannone mentre sedeva a tavola all’interno della curia, e pochi giorni dopo morì.
Il giorno seguente un cristiano prigioniero dei turchi riuscì a raggiungere la città. Appena entrato, fu condotto subito dal Bragadin e gli disse che nel campo dei turchi si era diffusa la notizia dell’avvistamento di un’armata cristiana a nord della parte occidentale dell’isola, cosa che aveva disturbato e preoccupato i turchi. Interrogato se i nemici stessero ancora scavando gallerie sotto le mura, egli rispose che i turchi lavoravano a esse ancora più di prima [13].
Ciononostante, la notizia che era stata avvistata l’armata cristiana diede morale agli abitanti di Salamina.
Notes:
1. Oggi quasi sconosciuto, Astorre Baglioni ebbe grande fama nei secoli scorsi. Ho scritto la prima monografia che lo riguarda nel 2017, contenuta ne I Padroni dell’Acciaio. Uno studioso del XVI secolo, Bernardino Tomitano, impiegò gli ultimi anni della sua vita (1572-1576) a redigere la colossale opera Vita e fatti di Astorre Baglioni, in otto libri. Viste le dimensioni e l’argomento di nicchia, nessun editore si è mai preso la briga di curarne un’edizione stampata. Ad oggi, i tre manoscritti sono conservati presso Perugia (Archivio dell’Abbazia di S.Pietro), Roma (Bibl. Naz. Vittorio Emanuele), Vaticano (Bibl. Vaticana). Come riportato da GIRARDI M.T., Il sapere e le lettere in Bernardino Tomitano, Vita e Pensiero, 1994, le tre copie sono state segnalate in KRISTELLER P.O., Iter Italicum, volume II, Londra, The Warburg Institute, 1967. Astorre Baglioni era stato assoldato da Venezia a trent’anni, nel 1556, quando aveva già sulle spalle quasi quindici anni di esperienze militari. Dagli scontri con i turchi in Ungheria alle incursioni contro i corsari nordafricani, il Baglioni si era sempre distinto per valore e disciplina. A dimostrazione della sua indole battagliera, vale la pena ricordare che, in VERMIGLIOLI G.B., Biografia degli scrittori perugini e notizie delle opere loro, Volume I, Perugia, 1829, viene citato un opuscolo riassuntivo della sua contesa cavalleresca con il Conte Giulio Landi, composta nel 1546 (quando il Baglioni aveva 20 anni) dal Consiglio di Giustizia di Parma. Nello stesso testo si fa anche riferimento a un apprezzamento personale di Torquato Tasso nei confronti dell’Astorre Baglioni poeta e letterato.
2.Per indicare la monetazione d’emergenza in caso di assedio, in numismatica si usa il termine «moneta ossidionale». A partire dal XVI secolo, questo tipo di monetazione venne utilizzata da molti governanti europei che si trovavano rinchiusi in fortezze poste sotto assedio. Mancando sia il denaro che materiale per coniarlo, si procedeva a utilizzare ciò che era a disposizione degli assediati, dalle forniture d’argento a tutti i tipi di metallo. In Italia la monetazione ossidionale fu decretata in diversi casi, come quello di Crema nel 1514, di Pavia nel 1524, di Cremona nel 1526. Lo stesso Clemente VII emise monete ossidionali durante l’assedio dei lanzichenecchi nel 1527. In TRAINA M., Gli assedi e le loro monete (491-1861), Bologna, R. Giannantoni Editore, 1975, si legge «I Bisanti, battuti durante l’assedio di Famagosta, tutti in rame e con la data 1570, recano al dritto l’impronta del leone di San Marco con la leggenda PRO / REGNI / CYPRI / PRAESIDIO a spiegazione dello speciale carattere della emissione; sotto la data. Al rovescio, in quattro righe, VENETORV // FIDES/INVI // OLABILIS; sopra un amorino (che accenna alle tradizioni mitologiche dell’isola cara a Venere), che implora il cielo per vendicare la perfidia dei turchi e sotto l’indicazione del valore BISANTE…» Fra i molti altri esempi europei, vale la pena ricordare quelli risalenti alla Guerra civile inglese. In BEYNON V.B.C., Siege Money of the Civil War, British Archaeological Association, 1935, viene
3. Nell’agosto del 1567, a Nicosia era giunto Giulio Savorgnano, sovrintendente delle artiglierie e delle fortezze dello stato veneziano. Dopo aver abbattuto la vecchie mura, costruì una nuova fortificazione alla moderna, ristretta alla città e formata da un endecagono regolare a 11 baluardi. In B. SERENO, Commentari della guerra di Cipro della lega dei principi cristiani contro il turco, 1845 (anno della prima pubblicazione a stampa di un manoscritto trovato presso l’Archivio Cassinese), leggiamo però che le fortificazioni non furono completate:
«A questa fortificazione il Savorgnano lavorò per lo spazio di dieci mesi, cingendola di cortine e baloardi di terra e l’ascine, come si suole, con intenzione di farle di fuori le camicie di muro. Ma essendo mentre ciò faceva richiamato, non fu poi chi curasse di farla unire, né di affondare le fosse tanto che i baloardi avessero potuto fare l’officio loro; il che fu cagione che tutta quella opera inutile riuscisse. Perciocché non potevano i baloardi guardar le cortine; e non reggendo il terreno senza la debita crusta alla tempesta delle artiglierie, più tosto, cadendo, porse nel bisogno commodità a’ nemici di salirvi, che non la città rendesse sicura.»
4. In CARRO D., Classica (ovvero “Le cose della Flotta”): Libro XII Tomo I – Fasti Navali, glossario e sommario, Rivista Marittima, Roma, 2003, sono riportate le definizioni di celoce trovate nelle fonti antiche:
1) «è una piccola nave così detta per la velocità» [Non.];
2) celoci sono «veloci biremi o agili triremi adatte a servire la flotta» [Isid.6];
3) «Si dà il nome di celox a un tipo di navicella [navicellae] di dimensioni molto modeste che noi chiamiamo bemplum, onde anche Apuleio, nel suo libro Sull’amministrazione dello stato [de re publica] dice: «chi non sa governare una piccola navicella [celocem], ne cerca una da trasporto [onerariam].» Ancora nel XVI secolo si usava questo termine per indicare le imbarcazioni più agili e veloci; quelle, per intenderci, più adatte alle comunicazioni e a piccoli compiti logistici.
5. La velocità delle galee e, di conseguenza, i tempi di percorrenza delle varie rotte mediterranee, sono state oggetto di molti studi. Da una comparazione fra le fonti latine, alcuni studiosi hanno ricavato una velocità media di 4-6 nodi in caso di condizioni metereologiche molto favorevoli. In PRYOR J. H., Geography, Technology, and War Studies in the Maritime History of the Mediterranean (649–1571), 1992, si cita il caso della flotta di Belisario (composta da navi a vela e a remi), che navigò alla media di 1.35 nodi per percorrere le 1250 miglia fra Costantinopoli e il luogo d’approdo nel nord Africa vandalica. Sei secoli dopo, nel 1191, la flotta di Riccardo Cuor di Leone viaggiò da Messina a Limassol in 30 giorni, a una media di 1.36 nodi. Filippo Augusto fu più veloce, e navigò da Messina ad Acri in 22 giorni, alla media di 2.3 nodi. Interessante è il caso della galea genovese di Simone Leccavello, che percorse le 1350 miglia fra Chios e Genova in 35 giorni, alla media di 1.85 nodi, ma successivamente riuscì a percorrere 200 miglia in 28 ore alla velocità di 6.25 nodi. Una velocità che coincide con quella delle galee romane in condizioni molto favorevoli. Tornando ai fatti di Salamina, Marcantonio Quirini coprì le 550 miglia fra Candia e Famagosta in otto giorni alla velocità di 2.6 nodi. Poco dopo, Don Giovanni d’Austria portò la flotta spagnola da Barcellona a Lepanto in 35 giorni.
6. In SETTON K.M., The Papacy and the Levant (1204-1571), Vol. IV, 1984 leggiamo che il Quirini portò a Salamina: 6.562 ducati, che furono fondamentali per mantenere i soldati ai loro posti dopo mesi di monetazione ossidionale, 4 colubrine, 6 cannoni, moltissime munizioni per questi ultimi, 46 pezzi di varia artiglieria, 1.400 barilotti di polvere da sparo e 800 barili di vino (che, va detto, in certi momenti potevano essere d’aiuto quanto e più di quelli di polvere da sparo). Viene precisato inoltre che i soldati sbarcati dal Quirini furono 1.270 e non 1.600 come scrive il Riccoboni.
7. Non era raro che, durante un assedio, la preoccupazione maggiore delle autorità civili e militari fosse quella di mantenere un adeguato sostentamento per i combattenti. Per questo era necessario prendere provvedimenti nei confronti delle cosiddette «bocche inutili», ovvero coloro che consumavano le provviste senza dare alcun apporto alla difesa della città. Individuare chi dovesse rientrare in questa sfortunata categoria non era facile. Antonio Cornazzano, nel suo De re militari del 1476, inserì una simpatica rima per aiutare nella scelta: «Quando el raccolto pur non gli bastasse/ tutta l’età disutile a far facti/ per lo consiglio mio fora si casse/ femine, putti, vecchi, i ciechi, i matti.» Di simile avviso era, un secolo e mezzo dopo, il cardinale Richelieu, che cosigliava una rapida espulsione degli inabili alla difesa per resistere più a lungo durante un assedio. In ALFANI G.; RIZZO M., Nella morsa della guerra. Assedi, occupazioni militari e saccheggi in età preindustriale, Milano 2013, si trovano citati molti esempi di espulsione degli «inutili»: a Pavia nel 1359, a Novara nel 1495, a Siena nel 1554, a Malta nel 1565, e tanti altri. Per capire quale potesse essere l’entità numerica di questi soggetti, bisogna ricordare che la lista delle bocche superflue fatta redigere nel 1554 nella Siena assediata dall’esercito ispano-mediceo, contava circa 4.400 persone, ovvero il 15-20% della popolazione cittadina prima dell’assedio. Quanto a Famagosta, che nel 1570 contava 10.000 civili, secondo le stime del Riccoboni (probabilmente esagerate) il numero di espulsi raggiunse il 53% del totale.
8. Le mura di Famagosta iniziarono a essere riviste negli ultimi anni del regno di Caterina (1474). Adatte alla guerra medievale, perché potessero sopportare un fuoco d’artiglieria massivo era necessario rinforzarle e trasformarle in fortificazioni alla moderna. Vista l’importanza strategica della città, Venezia non risparmiò uomini e denari, e d’altronde i lavori di ammodernamento videro l’avvicendarsi di alcuni dei più importanti esperti del XVI secolo (Il Cav. Orologi, Ercole Martinengo, Michele Sanmicheli, Ascanio e Giulio Savorgnano, ecc.). Ancora in TRAINA M., Gli assedi e le loro monete (491-1861), si parla delle mura di Famagosta: «Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, sono frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, è intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti cavalieri, che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all’esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco è difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, più basso, il forte del Rivellino».
9. Durante l’assedio, il Bragadin (di certo insieme al Baglioni) aveva suddiviso le mura fra i capitani militari. Lo stesso Bragadin alloggiava nel torrione del forte Andruzzi, Astorre Baglioni nel forte di Santa Nappa, Tiepolo in quello di Campo Santo. Al torrione e al cavaliere grande dell’arsenale era preposto il Cavalier Francesco Bugone, alla cortina e al cavaliere di Volti, compreso il torrione di Campo Santo, il Cavalier Pietro Conte, Nestore Martinengo aveva il cavaliere di Campo Santo, quello dell’Andruzzi e la cortina fino al torrione di Santa Nappa. Ercole Martinengo controllava il cavaliere di Santa Nappa e tutta la cortina fino alla Porta di Limassol. Il Rivellino e la cortina verso il baluardo erano del Capitano Orazio da Velletri, mentre al cavaliere di Limassol, il più colpito, si trovava il Capitano Roberto Malvezzi.
10. Nonostante la combattività delle donne di Famagosta, fu una nobildonna di Leucosia, Belisandra Maraviglia, a scrivere il proprio nome negli annali veneziani. Dopo aver preso la capitale di Cipro, Mustafà fece caricare su tre imbarcazioni le donne più belle, le vergini e i fanciulli, assieme alle spoglie più rare, in modo che raggiungessero subito Costantinopoli come trofei per Selim II. Questi era particolarmente orgoglioso del suo harem, tanto che negli ultimi anni di regno si dedicò quasi esclusivamente a quest’ultimo. Fra le donne imbarcate alla volta della capitale ottomana c’era la menzionata Belisandra, moglie di Pietro Albino, il gran cancelliere di Cipro morto nell’assedio di Nicosia. Temendo gli oltraggi e le violenze sessuali che avrebbe subito, assieme alle sue compagne, da parte dei turchi, Belisandra riuscì a raggiungere il deposito munizioni della nave con una torcia, recitò una preghiera, e poi gettò la torcia in terra. L’esplosione fu così dirompente da far saltare in aria sia la galea di Belisandra che le due imbarcazioni di supporto. Morirono quasi tutti, turchi e prigionieri cristiani. I pochi sopravvissuti ottomani raccontarono la storia al loro ritorno in patria. [Alcuni cronisti riportano l’episodio con una diversa protagonista, tale Arnalda de Roccas.]
11. Nonostante i 1.400 barilotti portati dal Quirini, i soldati di Famagosta si trovavano sempre più a corto di polvere da sparo. All’inizio di giugno ne rimanevano complessivamente circa 3.000, tanto che il Baglioni diede l’ordine di sparare al massimo cento colpi di risposta a ogni cannoneggiamento nemico. Il numero scese poi a ottanta colpi e infine, nella seconda settimana di luglio, a venti colpi al giorno. I turchi non ebbero difficoltà a comprendere le mancanze logistiche dei veneziani, e incrementarono ulteriormente il loro bombardamento giornaliero (e notturno) sulla fortezza. La carenza di polvere da sparo viene confermata dal Capitano Matteo da Capua, che il 28 ottobre del 1571 scrive a Marcantonio Barbaro, bailo di Venezia a Costantinopoli, perché interceda per la sua liberazione: «però essendosi noi accorti che havendo tirrati 1500 tirri fra notte et di in 8 giorni havevimo consumati 4000 barilli di polvere, s’incominciò andar un poco più posato, essendosi fatto il calcolo della polvere et quel che poteva bastare.»
12. Come già ricordato, nell’assedio di Salamina le capacità di Astorre Baglioni furono messe in secondo piano a causa dei terribili fatti che seguirono la resa. Tuttavia, egli si dimostrò molto abile sia nella difesa che nelle sortite fuori dalle mura. Un esempio è quanto accadde nel settembre del 1570, appena dopo la caduta di Nicosia. Il Baglioni, intenzionato a rallentare e colpire duro il nemico, organizzò una carovana di 15 carri da utilizzare come esca, nella speranza che i turchi li attaccassero pensando fossero rifornimenti. Ovviamente, i carri erano pieni di soldati e nei dintorni stazionavano altri soldati, fanti e cavalieri, che dovevano schiacciare i turchi in una morsa mortale. Purtroppo ci fu un imprevisto: Francesco Francavilla, ufficiale di cavalleria, scambiò un asino che pascolava lì intorno per il mezzo di una spia nemica e gli sparò con l’archibugio. I turchi, diretti ai carri, si allarmarono, e Astorre Baglioni fu costretto ad anticipare l’attacco. Nella scaramuccia morirono cento cristiani e duemila turchi. Il povero Francavilla, il cui errore sarebbe potuto costare molto più caro ai soldati cristiani, fu ucciso da una cannonata nel prosieguo dell’assedio.
13. Sul finire dell’assedio di Rodi, Solimano chiese al Gran Maestro degli Ospitalieri di fargli visita al campo. Una volta faccia a faccia, Solimano gli chiese di convertirsi all’Islam e divenire un suo generale. Il Gran Maestro però si limitò a rifiutare e venne licenziato dopo aver ricevuto una gran copia di doni (che fece dividere fra i Cavalieri). Successivamente, fu Solimano a voler incontrare il Gran Maestro nel suo palazzo in Rodi. Fu un colloquio molto amichevole, durante il quale Solimano disse al Gran Maestro di sbrigare con comodo le faccende dell’Ordine, senza preoccuparsi del termine di 12 giorni, visto che lo avrebbe prolungato a piacimento dei Cavalieri. Lo appellò anche con il titolo di «padre» e ordinò che i suoi uomini consegnassero agli Ospitalieri tutte le vettovaglie necessarie per il viaggio. Inoltre, fece restaurare a proprie spese la caracca del Gran Maestro, lo rifornì di grosse somme di denaro e gli diede un salvacondotto nel caso fosse stato attaccato dai pirati turchi nel Mediterraneo.
14. Il metodo di scavare gallerie sotto le mura nemiche, per farne crollare intere sezioni, veniva utilizzato già da millenni quando arrivò la polvere da sparo. In assenza di quest’ultima, gli ingegneri militari facevano scavare un tunnel che portasse sotto le mura nemiche, facendo attenzione a puntellarlo con travi di legno e a evitarne il crollo fino al momento prestabilito. Una volta arrivati alle mura, il tunnel veniva riempito di materiale combustibile con cui si faceva bruciare la legna di sostegno e collassare il cunicolo. Ovviamente, l’introduzione della polvere da sparo rese possibile infliggere danni ancora più massicci alle fortificazioni. Spesso dunque alla battaglia che si combatteva in superficie se ne aggiungeva una sotterranea. Gli assedianti tentavano di arrivare alle mura, piazzare un certo quantitativo di esplosivo e farlo saltare, mentre gli assediati scavavano delle contromine per «ascoltare» il progredire del cunicolo nemico, intercettarlo o farlo crollare. In questo tipo di assedio sotterraneo fu maestro il condottiero spagnolo Pietro Navarro, che nel 1503 minò e fece saltare le mura di Castel Nuovo e Castel dell’Ovo a Napoli.
Autore: Gabriele Campagnano
Fonte: Zhistorica

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