Strategia e tattica nei libri V e VI del De bello Gallico

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Dal punto di vista della storia militare, cioè della strategia e della tattica, i libri V e VI del De bello Gallico non presentano alcuna unità. Ma prima di giustificare questo punto di vista, e per evitare lunghi dibattiti su parole che sono oggetto di discussione, concordiamo su alcune semplici definizioni. Chiameremo “strategia” l’attuazione di vari mezzi per vincere una guerra, e “tattica” l’attuazione di vari mezzi per vincere una battaglia.

Per quanto riguarda la strategia (1) e la tattica (2), è ora possibile presentare la guerra gallica e le scelte fatte da Cesare per organizzarne il corso (3) in un modo nuovo. Nel 58 (BG, Libro I), il proconsole aveva bisogno di qualcuno che scatenasse una grande guerra che lo avrebbe reso un grande conquistatore. Sebbene in Gallia la forza militare più considerevole appartenesse ai Belgi, fu contro due popoli meno potenti che non minacciavano in alcun modo l’autorità di Roma, gli Elvezi e poi gli Svevi, che condusse le sue prime campagne. Dopo due vittorie, fece svernare le sue legioni nei pressi del territorio dei Belgi, i quali non riuscirono a sopportare questa provocazione e si ritrovarono coinvolti in un conflitto di vasta portata. Fu solo nel 57 (Libro II) che intraprese una campagna contro i Belgi e ridusse, ma non distrusse, la loro forza militare. Nel 56 (Libro III), dopo questa offensiva a nord, rivolse i suoi sforzi verso ovest. Guidò personalmente l’attacco contro l’Armorica, e in particolare contro i Veneti del Morbihan, un popolo molto ricco e molto potente (4). I suoi luogotenenti partirono per le operazioni nello stesso periodo, uno in Aquitania e l’altro nella nostra Normandia, allora nelle attuali Fiandre, a dimostrazione del fatto che il pericolo belga sussisteva ancora.

Cesare, come vediamo, stava applicando una strategia. Aveva preso di mira prima i nemici più pericolosi, i belgi, e solo dopo gli altri, che aveva considerato meno

minaccioso. Inoltre, egli praticava il “taglio del salame”: distrusse uno dopo l’altro i diversi eserciti della Gallia, evitando di provocare una grande coalizione. Qui vediamo la prima grande debolezza dei Galli: loro, d’altro canto, non avevano strategia alcuna. Inoltre, soffrivano di una seconda debolezza, che consisteva nel fatto che stavano attraversando una grave crisi politica che aveva due aspetti (5). Innanzitutto, ogni città fu divisa tra amici e nemici di Roma. I Galli non sapevano di essere Galli; Furono i Romani a chiamarli così. E il nemico principale di ciascuno era il suo vicino: gli Edui del Morvan odiavano gli Arverni dell’Alvernia che ricambiavano questo sentimento, i Linguisti dell’altopiano di Langres odiavano i Sequani del Giura ei Remi, abitanti della nostra Champagne, provavano ostilità verso tutti gli altri Belgi. Per questo motivo i Galli preferivano spesso un amico lontano, il Romano, la cui capitale era in Italia, a uno percepito come un nemico ereditario. Infine, ogni città era divisa tra sostenitori della monarchia, sistema allora arcaico, e seguaci di un regime aristocratico, allora considerato più moderno. I Belgi erano quindi governati da re e Vercingetorige cercò di imporre il ritorno dello stesso regime agli Arverni che, come gli Edui ei Veneti, obbedivano ciascuno a un Senato.

Alla fine del 56, la maggior parte delle truppe nemiche in Gallia era stata distrutta, ma c’erano ancora capacità di resistenza che dovevano essere annientate e che erano ancora poco sviluppate. Chi poteva e chi avrebbe voluto tentare l’avventura contro le legioni? Nell’attesa di questa ipotetica rivolta, Cesare approfittò della calma per compiere operazioni brevi e relativamente innocue, il cui unico scopo era quello di fare di lui un eroe, senza dubbio un nuovo Alessandro. Nel 55 (Libro IV), guidò una breve spedizione in Germania e poi un’altra spedizione, altrettanto limitata, nell’isola di Britannia. In entrambi i casi, rimase per un breve periodo e non si impegnò in battaglie importanti. Ma poteva dire di essere stato in paesi esotici, pieni di popoli bellicosi, e di essere tornato vittorioso. Poteva scrivere di aver addomesticato il dio Reno e il dio Oceano, il che dimostrava l’efficacia della dea Venere che lo proteggeva e dalla quale affermava di discendere.

L’anno seguente, nel 54 (Libro V), Cesare attraversò nuovamente la Manica (6). Affidò la guardia della Gallia a un ottimo ufficiale, Irzio, che per portare a termine questo compito ricevette tre legioni (3 volte 4000 uomini), con l’ulteriore missione di assicurare la forza di spedizione. Cesare stesso prese cinque legioni (vale a dire 5 volte 4000 uomini) e 2000 cavalieri. Ci vollero 800 navi per trasportare queste truppe, l’equipaggiamento e il cibo di cui avevano bisogno. Partì da Portus Itius (Boulogne), arrivò a Dover, probabilmente risalì un po’ la costa e sbarcò. Passò da Canterbury, attraversò il Tamigi a ovest di Londra, giunse a St. Albans, la capitale del capo nemico Cassivelaunos, e ripartì per la stessa strada, non senza aver combattuto alcune battaglie. Dovette affrontare i Bretoni nascosti in agguato nelle foreste e altri nelle pianure, come gli Essedarii, che viaggiavano sui carri. Poi ripartirà per la stessa strada e si imbarcherà nuovamente. Da un punto di vista strategico, quindi, l’anno 54 non fu altro che un prolungamento dell’anno precedente. 

Giunto sul continente, il proconsole dovette poi tornare a combattere i Belgi che si erano sollevati durante la sua assenza, in particolare i Treviri, abitanti di Treviri, e gli Eburoni del nord delle attuali Fiandre. Ambiorige, re di questo popolo formidabile, tenne un accampamento tenuto da due legati di Cesare, Sabino e Cotta. Invece di restare in casa in attesa dei soccorsi, come previsto dalle regole, i Romani tentano di fuggire. Caddero in un terribile agguato; i legati furono uccisi e lo stesso Cesare stimò le perdite in una legione e mezza. D’altra parte, Cicerone, fratello dell’oratore, anch’egli assediato, si salvò perché rispettò l’ordine. Aspettò l’arrivo dell’esercito di soccorso. Finalmente arrivato, con il proconsole alla sua testa.

L’anno 53 (7) (libro VI) vide Cesare di nuovo tra i Belgi, dove tentò nuovamente di ristabilire l’ordine. Decidono quindi di inseguire i resti del popolo degli Svevi, già sconfitti nel 58 e insediati sulla riva destra del Reno. Ritornò in Germania, dove questa volta rimase ancora per un breve periodo. Ma al suo ritorno si scontrò nuovamente con i Belgi e con gli Eburoni. Questi ultimi ricorsiro ad una forma di combattimento poco comune nell’antichità, ad una nuova tattica, alla guerriglia, detta anche ratio, come la chiamava Cesare (8). Ma i Romani reagirono efficacemente e svilupparono una guerra di controguerriglia. Distrusse tutto ciò che poté, bonificando le aree attorno ai suoi accampamenti e alle città che voleva conquistare. E fece quanti uccidere più Eburoni possibili, uomini, donne e bambini, senza distinzione di età o di sesso. Il successo coronò i suoi sforzi.

L’esistenza di una strategia elaborata da Cesare, senza dubbio elementare rispetto a quelle attuate nel XX secolo, costituisce un primo importante elemento per comprendere la sua vittoria finale nelle guerre galliche. La mancanza di un concetto complessivo tra i suoi nemici costituisce un secondo elemento di spiegazione. Lo studio delle tattiche, in entrambi i campi, supporta questa analisi.

La tattica dell’esercito romano al tempo di Cesare era molto diversa, contrariamente a quanto pensano molti storici (9). Per essere attuata, richiedeva competenze avanzate da parte degli ufficiali e dei soldati, che dovevano allenarsi regolarmente e praticare l’esercitazione (exercitium o exercitatio). Ciò fu reso possibile dall’estensione del periodo di servizio, che di fatto trasformò un esercito che in teoria rimaneva un esercito di coscritti in un esercito professionale.

La guerra è crudele, un aspetto che i resoconti degli storici tendono ad attenuare. Un esame delle armi dei soldati lo dimostra chiaramente.

In combattimento, il legionario (10) doveva proteggersi e uccidere. Come armamento difensivo aveva una cotta di maglia, un elmo e uno scudo. La cotta di maglia proteggeva il torace, ma soprattutto dai colpi di piatto o di taglio della spada nemica, e ancora meno dalla punta. L’elmo era costituito da una semplice calotta di ferro. Lo scudo, allungato e “a forma di tegola”, era decorato con una semisfera al centro, Vumbo; Veniva utilizzato per deviare l’impatto di frecce e giavellotti e consente di colpire l’avversario durante il combattimento ravvicinato. Ai lati, e per lo stesso scopo, era rinforzato con del metallo. Lo scudo potrebbe quindi trasformarsi in un’arma offensiva. 

Come arma puramente offensiva il legionario utilizzava anche e soprattutto la famosa coppia gladio-pilum. Al tempo di Cesare, il pilum era un giavellotto costituito da una lunga punta di ferro separata da un piolo da un’asta di legno relativamente corta; Al momento dell’impatto, il perno ceduto e lo strumento non potranno più essere restituiti al mittente. Inoltre, piantato nello scudo, rappresentava un peso che spingeva il nemico ad abbassare la guardia e ad esporsi a una seconda raffica di giavellotti. Può anche essere tenuto come lancia e, se portata sottobraccio, può essere usato a mano. Il gladio era una spada corta ed estremamente resistente (circa 80 cm). Permetteva di colpire sia di taglio che di punta e provocava ferite terribili e spaventose: poteva provocare grandi sventramenti e, con un solo colpo, staccare la testa o un braccio del nemico dal tronco. Il pugnale veniva utilizzato anche nel combattimento corpo a corpo, in particolare per finire i feriti di cui non si voleva gravare.

A differenza di altri soldati antichi, come gli uomini della falange macedone, i legionari avevano bisogno di spazio. Il soldato non ha combattuto spalla a spalla, ma si appoggiò ai due vicini. Per esercitarsi nella scherma tutti dovevano avere a disposizione circa 1,50 metri. Allo stesso modo, durante la battaglia, le unità si trovavano a una buona distanza da una dalle altre, il che conferiva loro una grande flessibilità. In queste condizioni, gli uomini erano raggruppati in una coorte, un’associazione di tre manipoli, il manipolo stesso era l’aggiunta di due centurie (oltre alla coorte e al manipolo, la centuria non era un’unità tattica, ma La prima linea della coorte era composta da un manipolo di pili, una parola che, al tempo di Cesare, non aveva più il suo significato originale di utilizzatori di pilum. Nella seconda linea c’erano i principes, che un tempo avevano occupato il primo posto, da cui il loro nome. Nella terza linea, gli hastats o triari possedevano età ed esperienza. Da qui un proverbio. Quando si diceva: “La questione viene ai triari”, era perché la situazione era, se non disperata, almeno molto seria. Le coorti, di fronte al nemico, erano su tre linee. Questo è ciò che Cesare chiamava triplex acies. In caso di necessità, per estendere il fronte del suo esercito, ad esempio perché era a corto di uomini, poteva disporre le coorti in due linea (linee duplex) o anche su una singola linea. 

Ordine di battaglia di una legione

Ordine di battaglia di una corte

I nemici, i Galli, erano molto meno equipaggiati e non erano stati in grado di sviluppare tattiche così avanzate (11). Sebbene fossero lo stesso armamento difensivo: cotta di maglia, elmo e scudo, quest’ultimo lungo e fatto di tegole, solo i capi erano abbastanza ricchi da poterne acquistare un set completo. Tuttavia, l’armamento era molto inferiore a quello dei Romani. La lancia, con una punta di ferro molto corta su un lungo corpo di legno, era più difficile da maneggiare del pilum e poteva essere facilmente restituita al mittente. Fu soprattutto la spada a rivelarsi poco adatta al nuovo stile di guerra: lunga e piatta, di scarsa qualità, consentiva di colpire di lato e si piegava molto rapidamente, spesso al primo colpo.

Dal punto di vista tattico, i Galli, a quanto pare, avevano raggiunto diversi gradi di evoluzione. Ma, in generale, sono stati trovati più spesso disposti in una falange compatta. Sfruttando l’effetto di massa, si lanciarono contro il nemico urlando e con tutto lo slancio possibile. Di fronte alla flessibilità delle triplex acies e alla professionalità dei loro avversari, difficilmente duravano a lungo. Così, se grandi battaglie sono ben attestate dal 58 al 56, successivamente i Galli ebbero grande cura di evitare questo tipo di scontro.

Sarebbe sbagliato pensare che per i Romani la tattica si riducesse alle battaglie in campo aperto. In qualità di comandante in capo, Cesare aveva molteplici compiti da svolgere e diverse opzioni di confronto.

Quando partiva per una spedizione, il proconsole aveva un compito complesso da svolgere prima che l’esercito partisse.

Per prima cosa dovette raccogliere i rifornimenti ei mezzi di trasporto necessari per trasportarli in territorio nemico. La logistica, contrariamente a quanto hanno scritto alcuni storici, è sempre stata una preoccupazione essenziale e permanente per Cesare (12). I suoi uomini raramente soffrivano la fama.

Poi dovette occuparsi dell’intelligenza (13). Cercò di conoscere il nemico, le forze a sua disposizione e il terreno sul quale avrebbe dovuto affrontarlo. Interrogò i mercanti di passaggio e mandò degli esploratori davanti all’esercito.

Poi, a seconda della topografia e del nemico, organizzò l’ordine di marcia. In ogni caso, mettere i bagagli al centro; La loro importanza era, dal punto di vista psicologico, essenziale, e la loro perdita determinò la disfatta delle truppe più temprate. Distribuì le legioni sul fronte e sulle retrovie e, se il terreno lo permetteva, anche sui fianchi. Quest’ultimo dispositivo era chiamato Vagmen quadratum. Di solito, i cavalieri precedevano l’esercito e, se necessario, altri lo seguivano.

E la religione non dovrebbe mai essere dimenticata (14). Gli antichi erano tutti molto pii, contrariamente a quanto hanno talvolta scritto alcuni moderni, e nessun soldato sarebbe andato a combattere senza il parere favorevole degli dei. Cesare, pur essendo personalmente scettico riguardo a queste pratiche, dovette prendere gli auspici, pregare e procedere ai sacrifici. Il generale era anche un sacerdote.

Quando l’esercito si mosse, avanzava a una velocità di 15-30 km/h al giorno, a seconda dell’urgenza della situazione. Ogni notte doveva costruire un accampamento, protetto da grandi opere. I soldati scavarono una fossa e gettarono la terra per formare un crinale (agger) sul quale eressero una palizzata (uallum). Trascorrevano la notte in tende (papiliones). Al mattino, prima della partenza, tutto doveva essere distrutto, per non permettere al nemico di ripararsi.

Quando Cesare entrò in contatto con il nemico, gli si presentarono diversi eventi. La più famosa fu la battaglia in aperta campagna. Doveva prima organizzare il suo ordine di battaglia, secondo quello adottato dal nemico, cioè rinforzare l’ala destra o l’ala sinistra, o anche il centro, a seconda del punto su cui si trovava e su cui voleva concentrare i suoi sforzi principali. Spesso schierava le sue truppe lungo come triple acies, con una riserva nella parte posteriore ei bagagli in un accampamento ancora più arretrato. A volte faceva dei lavori per ostacolare il nemico, sulla destra o sulla sinistra. Poi pronunciava un discorso per incoraggiare i suoi uomini e dava ordine di attaccare nel momento che gli sembrava più opportuno, spesso dopo aver lasciato che i Galli si stancavano attraversando tutta la pianura.

La tattica della battaglia stessa era relativamente semplice (15). L’apertura delle ostilità poteva essere affidata all’esercito. Pezzi chiamati scorpioni, baliste, onagri, frecce lanciate, giavellotti, pietre, travi contro il nemico. Il loro funzionamento si basava sul principio della torsione, del nervo ottico, di una corda o di una piastra metallica.

Una volta raggiunto il nemico, i legionari lo indebolirono ulteriormente con una pioggia di pila, per poi passare al combattimento corpo a corpo e alla scherma. Dovevano o tagliare fuori un’ala del nemico, o separarne il centro da una delle ali, e poi distruggere il corpo così circondato e isolato dal resto dell’esercito. Le stesse regole si applicavano anche quando il nemico era organizzato in falange, il che, come si è detto, era spesso il caso degli eserciti gallici. Quando la vittoria fu assicurata e il nemico dovette ritirarsi, la battaglia non era ancora finita. Era necessario inseguire i fuggitivi, con cautela, per non cadere in un’imboscata. Era infatti uno stratagemma molto comune fingere di salvarsi per attirare in trappola uomini che erano nell’euforia di quella che credevano essere una vittoria. Lo scopo di questa operazione era quello di completare la distruzione totale delle forze nemiche.

Se i soldati erano soddisfatti del modo in cui erano stati comandati, lo facevano sapere insignendo il loro generale del titolo di imperatore. Successivamente, se il Senato approvò questa scelta, autorizzò il vincitore a celebrare un trionfo, sia militare che religioso, una parata e una processione, che gli consentivano di essere per un breve periodo l’incarnazione di Giove, l’invidiato vertice di una grande carriera e, come si è detto, l’oggetto di tutti i desideri di Cesare.

Nonostante fosse pienamente certo del successo, il generale romano non aveva ancora finito.

Per prima cosa dovette dividere il bottino, seguendo una procedura complessa, che variava nel tempo. Il bottino, ovvero il desiderio di guadagno, era una potente motivazione per i soldati romani. Questa appropriazione obbediva a una nota regola di diritto: tutto ciò che apparteneva al vinto appartiene ora al vincitore. Compreso lui stesso, sua moglie ei suoi figli, tutti diventati schiavi. Ma probabilmente erano l’oro e gli oggetti facilmente monetizzati ad avere il fascino maggiore.

Il generale avrebbe poi dovuto celebrare riti importanti. Potrebbe far erigere un trofeo (16). Questo monumento aveva lo scopo di ringraziare gli dei che avevano donato a Roma la triade formata da Marte, Venere e Fortuna. Era costituito da due pezzi di legno a forma di croce, che formavano un manichino ricoperto di armi raccolte dai cadaveri dei vinti. Doveva garantire una degna sepoltura ai suoi defunti, farli cremare e seppellire dopo aver offerto un sacrificio. 

Ma, contrariamente a quanto credevano molti autori di libri di testo, la battaglia non si limitò a un semplice scontro in aperta campagna. I generali di Roma preferivano di gran lunga l’assedio, che consentiva loro di risparmiare il sangue dei loro uomini. È un’arte in cui erano maestri (Catone diceva che la guerra si vince più con il piccone che con la spada).

La tecnica d’assedio deriva da una duplice eredità, quella della castramezione romana e quella della poliorcetica greca. È difficile stabilire quale ruolo ciascuno di loro abbia avuto nel talento di Cesare. Il signor Reddé, l’ultimo scavatore di Alésia, insiste sull’influenza ellenistica (17). Innanzitutto, gli assedianti dovevano garantire la propria sicurezza. A tal fine, costruirono forti e piccoli fortini per ripararsi, soprattutto di notte. Poi cercarono di isolare l’assediato, in modo che non ricevesse cibo dall’esterno (l’aspetto psicologico giocò un ruolo importante). Circondavano la città nemica con un lungo muro, talvolta doppio: un lato rivolto verso l’interno per impedire le uscite e uno rivolto verso l’esterno per impedire gli ingressi. In ogni caso, è stata utilizzata la trilogia fossa-agger-uallum.

Se il nemico non si fosse arreso a questo formidabile congegno, i legionari lo avrebbero disfatto. Costruirono torri mobili, montate su ruote, e dispositivi chiamati “tartarughe” (uineae). Il tetto era montato su un apparecchio di legno, a sua volta montato su ruote. Sotto questo riparo, rinforzato se necessario con cuoio, poteva essere installato un ariete o degli uomini che avrebbero attaccato il muro con utensili o prodotti infiammabili. I fossati vennero gradualmente riempiti per consentire a queste macchine di avanzare verso il bastione. Qui vennero impiegati anche pezzi di miliardari. I legionari, ai piedi del muro, tentarono di abbatterlo o tentarono di salirci sopra con le scale.

Durante le guerre galliche, questo tipo di assalto non era facile da condurre. In effetti, i Celti erano riusciti a sviluppare un tipo di protezione molto efficace, il murus gallicus (18). Posarono delle travi di legno sul terreno, perpendicolari tra loro; altri erano posizionati in diagonale; Gli spazi vennero riempiti di terra e il rivestimento esterno venne rivestito di pietre. Questo era il loro punto di forza, come abbiamo visto nel 52 aC, quando Cesare subì una sonora sconfitta.

Se il nemico non si arrendeva, la città era presa d’assalto. All’assedio seguì poi un altro tipo di conflitto, la battaglia urbana, che aveva le sue regole. I Romani cercarono di avanzare, per quanto possibile, su un fronte unito, per strada e di casa in casa, fondando i muri e scavalcando i tetti. In questo caso, i civili pagarono un prezzo elevato agli dei della guerra, cosa che non dispiacque eccessivamente ai legionari.

Durante le guerre galliche vennero impiegati altri due tipi di tattiche. Ricordiamo innanzitutto la lotta contro la guerriglia utilizzata nel paese degli Eburoni. Infine, per completezza, menzioniamo la battaglia navale. L’incontro avvenuto nel 56 tra i Veneti e Bruto fu un momento importante della guerra. Ma la marina ebbe un ruolo importante nel 54, nell’attraversamento della Manica. Secondo la leggenda, Roma era da tempo una grande potenza navale (19).

Le sue navi erano le più grandi e robuste mai costruite nell’antichità (bisognerà aspettare l’epoca delle caravelle e il XV secolo per trovare navi di così grande tonnellaggio). Erano inoltre difesi in modo formidabile da pezzi di fascista molto efficaci. Nel 54 le navi da trasporto furono accompagnate da navi da guerra.

Dopo che l’insurrezione del 53 fu sedata, la Gallia appariva calma in superficie; ma, nel profondo, era pronta all’insurrezione. Infatti, l’anno 52 (libro VII) vide l’ascesa di un grande condottiero, Vercingetorige (20), che si dimostrò capace di unire molti popoli attorno al suo nome. Costrinse Cesare a ritirarsi. Dopo questo primo significativo successo, il condottiero gallico si chiuse ad Alesia dove fu assediato e costretto ad arrendersi ad un nemico superiore, soprattutto perché utilizzava tecniche molto moderne per l’epoca (21). Le guerre galliche erano finite e Cesare smise di scrivere i suoi Commentari. Nell’anno 51 (libro VIII, di Irzio) i Galli tornarono ai loro demoni, alle guerre intestinali, mentre i Romani distrussero metodicamente e completamente ciò che restava della loro potenza militare.

Cesare non poteva perdere le guerre galliche. Solo lui aveva elaborato e concepito una vera strategia, e la tattica dell’esercito romano gli dava un chiaro vantaggio anche sui suoi avversari, il cui coraggio non era in discussione. Un’altra osservazione importante riguarda la diversità degli obblighi generali. Doveva prepararsi e scegliere il tipo di scontro più adatto, che si trattasse di una battaglia aperta o di un assedio. Una tattica così complessa poteva essere attuata solo da ufficiali altamente qualificati e soldati altamente addestrati.

Nota:

1. M. Rambaud, Abbozzo di una strategia di Cesare basata sui libri V, VI e VII di De BG, L’Information Littéraire, 1957, p. 54-63, ep. 111-114. I dibattiti suscitati da un libro recente dimostrano che permangono disaccordi attorno alla nozione stessa di applicata all’antichità: E. Luttwak, La grande stratégie de l’empire romain, traduzione francese di B. e J. Pages, 1987 (Parigi), 260 p.

2. A. Goldsworthy, Roman Warfare, 2000 (Londra), 224 p.

3. In questo articolo riportiamo alcune delle conclusioni del libro Cesare, capo della guerra, citato in bibliografia.

4. P. Galliou, Armorica romana, 1983 (Brasparts), 309 p. ; L. Pape, Britannia romana, 1995 (Rennes), 309 p.

5. J.-L. Cadoux, Gallia diuisa. Le divisioni interne della Gallia al tempo di Cesare, Bollettino trimestrale della Soc. degli Antiquari della Piccardia, 1980, p. 257-265.

6. Vedi anche Cassio Dione, XL, 5-11 e 31-32, perché questo autore esprime talvolta punti di vista molto critici nei confronti di Cesare. C. Hawkes, La Gran Bretagna e Giulio Cesare, Papers of the British Academy, 63, 1977, p. 157-176

7. Vedi anche Cassio Dione, XL, 32.

8. L. Loreto, Quattro linguistica e filologia, 5, 1990 [1993], p. 331.

9. A. Goldsworthy, citato sopra.

10. M. Feugère, Le armi dei Romani, 1993 (Parigi), 287 p.

11.J.-L. Brunaux e P. Lambot, Guerra e armamento tra i Galli {450-52 dC J.-C), 1987 (Parigi), 220 p.

12. J. Harmand, Un aspetto della riforma militare di Cesare. Army Food, Atti del 93° Congresso Nazionale. della Soc. Salva. (Tours, 1968), 1970 (Parigi), p. 23-30.

13. NJE Austin e NB Rankov, Exploratio, 1995 (Londra), 292 p.

14. H. Le Bonniec, Aspetti religiosi della guerra a Roma, in J.-P. Brisson, Problemi della guerra a Roma, 1969 (Parigi), p. Italiano:

15. A. Goldsworthy, citato sopra.

16. G.-Cap. Picard, Trofei romani, 1957 (Parigi), 534 p.

17. M. Reddé e S. von Schnurbein, Scavi e nuove ricerche sui lavori dell’assedio di Alesia, Accademia delle Iscrizioni, Resoconti delle sessioni, 1993, p. Italiano: 281-314.

18. F. Audouze e O. Buschenschutz, Città, villaggi e campagne dell’Europa celtica, 1989 (Parigi), p. 105-130.

19. Dimostrazione convincente di M. Reddé, Mare nostrum, 1986 (Parigi), 737 p., ma per l’Alto Impero.

20. Y. Le Bohec, Vercingetorige, Rivista Storica dell’Antichità, 28, 1998, p. 85-120.

21. J. Harmand, Una campagna cesarea, Alésia, 1967 (Parigi), XXH-386 p. ; Sig. Reddé, articolo citato sopra.

Autore: Yann Le Bohec

Fonte : Vita Latina, N°160, 2000 .

Bibliografia

C. Goudineau, Cesare e la Gallia, 1990 (Parigi), 365 p.

J. Harmand, L’esercito e il soldato a Roma dal 107 al 50 aC, 1967 (Parigi), 538 p.

R. Etienne, Giulio Cesare, 1997 (Parigi), 323 p.

Y. Le Bohec, César, Cosa ne so? N. 1049, 1994 (Parigi), 127 p.

Y. Le Bohec, Cesare, capo guerriero, che sarà pubblicato nel febbraio 2001 dalle Editions du Rocher (Parigi-Monaco). 

 

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