Goth tactics of the 4th century, as exemplified by the Battle of Salices (377)

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Le fonti tardoantiche e bizantine antiche caratterizzano le tattiche gotiche con vari gradi di completezza, a partire dalla metà del III secolo e terminando con la metà del VI. Il modo di agire dei Goti in battaglia nel IV secolo è presentato, in sostanza, da una fonte principale: il resoconto del militare Ammiano Marcellino sulle relazioni gotico-romane nel 375-378 (Amm., XXXI, 3-16). In particolare, vanno evidenziate le battaglie di Salice (377) e Adrianopoli (agosto 378). Tuttavia, se il resoconto della seconda battaglia ci informa sulla strategia e le grandi tattiche delle parti, allora il resoconto della seconda battaglia ci presenta tattiche elementari, ovvero il modo di agire dei guerrieri in battaglia. Tuttavia, notiamo che l’autore stesso non prese parte né a questa battaglia con i Goti né alla battaglia di Adrianopoli da lui descritta in seguito (Austin 1979: 20; 162-163).

Ricordiamo brevemente il profilo storico degli eventi. Gli Unni, che apparvero sulla scena storica a metà degli anni ’70 del 300, distrussero lo stato ostrogoto nella regione settentrionale del Mar Nero. Sotto l’assalto dei nomadi, 200.000 Goti furono respinti verso il Danubio e chiesero alle autorità romane di consentire loro di stabilirsi sulla riva meridionale del fiume nel territorio dell’impero come federati. Il permesso dall’imperatore della parte orientale dell’impero Valente (364-378) fu ricevuto nell’autunno del 376 e i Visigoti e alcuni degli Ostrogoti attraversarono la riva meridionale del fiume. Sebbene secondo l’accordo, i Goti dovessero consegnare le loro armi all’attraversamento, molti, con qualsiasi mezzo, le conservarono: un tedesco senza armi non è un uomo (Tac. Germ., 6; 13). Un inverno affamato e l’oppressione dei funzionari romani spinsero i Goti a ribellarsi, il motivo fu un tentativo di uccidere il capo dei Visigoti, Fritigerno. I barbari iniziarono a saccheggiare la Tracia. Poiché Valente era a quel tempo impegnato nella guerra con i Persiani, inviò unità insignificanti contro i ribelli, a cui si unirono le truppe dell’imperatore d’Occidente Graziano, guidate dal conte di Domestics, il franco Ricomero, che assunse il comando generale.

Il compito dei Romani era di logorare i Goti in scaramucce e infliggere loro quanti più danni possibili fino all’arrivo delle forze principali di Valente. I Goti cercarono di sfuggire alle truppe imperiali; tuttavia, avendo ricevuto notizia dell’attacco che si stava preparando contro di loro, radunarono le loro forze in un wagenburg e decisero di accettare la battaglia. La battaglia ebbe luogo nei pressi della città di Salicium nella Bassa Mesia, nel territorio della Dobrugia, alla fine dell’estate del 377.

 

 

L’esercito romano era più piccolo di numero, mentre l’esercito goto, secondo i calcoli di T. Burns, era composto da circa 12.000 uomini (Burns 1973: 339, n. 25). I Visigoti, temendo un attacco, concentrarono tutte le loro forze nel wagenburg. Entrambe le parti volevano porre fine allo scontro con una battaglia aperta. Ammiano Marcellino così racconta questa battaglia (Amm., XXXI, 7, 10-15): “Così, immediatamente, allo spuntare del giorno, fu dato il segnale da entrambe le parti con le trombe (per lituos) per prendere le armi; i barbari, dopo che il giuramento era stato preso tra loro secondo l’usanza, cercarono di impadronirsi dei luoghi elevati, per rotolare da lì più bruscamente, come una ruota, giù per il pendio, in un assalto al nemico. Vedendo questo, anche i soldati si affrettarono verso i loro manipoli, stando con passo fermo, non vagarono o corsero fuori, lasciando i ranghi, in avanti. Così, quando entrambe le linee, avvicinandosi con un movimento cauto, rimasero immobili sul posto, i combattenti iniziarono a guardarsi l’un l’altro con occhiate di traverso con reciproca ferocia. E inoltre, i Romani ovunque iniziarono a cantare con la voce di marte [= combattimento – AN]: dalla più piccola voce solita fino all’aumento di quella forte, che secondo quella tribale è chiamata barrite, con cui eccitavano le loro potenti forze. I barbari, tuttavia, con grida discordanti sbandieravano i meriti dei loro antenati. E tra i vari rumori di voci discordanti, iniziarono leggere battaglie. E già i distaccamenti, da lontano da entrambe le parti molestandosi a vicenda con verruta [= dardi] e altri missili, convergono spaventosamente per chiudersi e, muovendo i loro scudi a forma di tartaruga, si unirono piede a piede. E i barbari, come sempre, riparabili (reparabiles) e rapidi, lanciando enormi bastoni bruciati contro i nostri e colpendo con le loro punte il petto di coloro che resistevano fortemente, sfondarono l’ala sinistra. Per capovolgere questa situazione, il più potente distaccamento di riserva dal fianco vicino, avanzando coraggiosamente, venne in soccorso, quando la morte era già al collo della gente. Così la battaglia infuriò con continue uccisioni: ogni più risoluto, precipitandosi verso i nemici uniti, incontrò da ogni parte i proiettili che volavano come grandine, e anche le spade; e i cavalieri inseguivano qua e là, tagliando con le loro mani possenti il ​​collo e la schiena di coloro che fuggivano, e, d’altra parte, i fanti allo stesso modo tagliavano le caviglie di coloro che erano caduti, paralizzati dalla paura. E quando tutto fu riempito dai corpi dei morti, tra loro giacevano alcuni mezzi morti, aggrappati alla vita con vana speranza, alcuni trafitti da una palla lanciata da una fionda, o dalla punta di un’arma di canna [= freccia], alcuni con le teste tagliate a metà della fronte e della corona, pendenti con grande orrore su entrambe le spalle. E, d’altra parte, le parti, non ancora stanche della tenace competizione con l’uguale Marte, si infliggevano danni a vicenda, ma ciascuno non si ritirava dalla sua forza innata,mentre l’eccitazione rinvigoriva la forza dello spirito. Tuttavia, la lotta mortale fu interrotta dall’avvicinarsi della sera del giorno, e lentamente, come meglio potevano, tutti coloro che erano rimasti in vita, dopo essersi separati, tornarono tristemente alle loro tende senza essere state costruite.”

Questa descrizione è interessante non tanto per la sua narrazione vivace e allo stesso tempo retorica, quanto per l’abbondanza di dettagli naturalistici, che vengono spesso omessi quando le fonti storiche descrivono battaglie. Innanzitutto, prestiamo attenzione alla cosiddetta natura speculare della descrizione: molti dettagli si applicano a entrambe le parti contemporaneamente. Si potrebbe prendere questo come un semplice espediente stilistico. Tuttavia, se guardiamo alle armi e alle tattiche dei Romani e dei Goti di quell’epoca, vedremo che sono simili in molti modi (cfr.: Wolfram 1993: 14). La maggior parte della fanteria romana e gota, di cui si parla nel brano, era armata uniformemente: uno scudo, vari tipi di aste da lancio e una spada. Le altre armi non sono così importanti in questo caso. In particolare, i Goti, disarmati per decreto imperiale, avevano come armi giavellotti con punta divinizzata, antica arma primitiva germanica (cfr.: Caes. BG, V,42; Tac. An., II,14; Germ., 45), su cui Ammiano Marcellino richiama l’attenzione come un esotismo. Anche Girolamo menziona tale somiglianza tra le truppe dei Goti e dei Romani, spiegandola però con ragioni religiose: “e perciò, forse, combattono contro di noi in eguale ordine, poiché credono nella stessa religione” (Hieronym. Epist., 107,2,3). Anche il panegirista Flavio Merobaude richiama l’attenzione sulla parità di combattimento dei Visigoti e dei Romani nel secondo quarto del V secolo (Paneg., II,151).

I Goti di solito iniziavano le battaglie all’alba (Procop. Bel. Goth., I,18,29; III,36,18; IV,35,22; 32). Preferivano non combattere di notte (Procop. Bel. Goth., IV,29,15-16; cfr.: I,25,5-9; II,4,4). Molto probabilmente, ciò non era causato da credenze religiose, ma semplicemente dal fatto che era scomodo combattere al buio (cfr.: Procop. Bel. Goth., III,26,20).

Al suono della tromba i Goti si preparano alla battaglia. Prima della battaglia i Goti, “secondo l’usanza”, come nota Marcellino, giurarono un giuramento. Apparentemente, giurarono di combattere fino alla morte e di non fuggire, come è dimostrato dall’andamento stesso della battaglia. Forse questo giuramento era simile al giuramento dei Siluri prima della battaglia con i Romani nel 52: “Ciascuno si impegnò con fede tribale che né proiettili né ferite lo avrebbero costretto a ritirarsi” (Tac. An., XII, 34). D’altra parte, questo potrebbe essere un giuramento simile a quello che i guerrieri giuravano in fedeltà al capo (cfr.: Tac. Germ., 13-14), e tra i Romani, apparentemente seguendo il modello germanico, i bucellarii giuravano al loro signore (Olymp. frg., 7 = Phot. Bibl., 80, 57a).

Successivamente, i Goti procedono direttamente all’azione militare. Inizialmente, cercano di catturare le alture dominanti. Ammiano spiega questo con il fatto che era più facile attaccare da lì. Tuttavia, dal contesto non è chiaro se siano riusciti a occupare le alture. Molto probabilmente, la risposta dovrebbe essere negativa, poiché non c’è un attacco in corsa in questa battaglia e non viene menzionato alcun attacco dalla montagna, così come una rapida transizione al combattimento corpo a corpo. Il desiderio di occupare le alture era caratteristico dei Goti e degli altri Germani. Ciò era dettato da considerazioni puramente tattiche. In primo luogo, è più facile difendersi da un attacco nemico da lì, infliggendogli maggiori danni dall’alto (Jord. Get., 197; 201; Procop. Bel. Goth., II,23,12; III,5,9-11; cfr.: Liv., VII,23,8-9; Tac. An., II,19-20). In secondo luogo, se le alture erano dalla parte del nemico, allora i fianchi e la retroguardia del nemico potevano essere minacciati da loro (Procop. Bel. Goth., IV,29,11). In terzo luogo, correndo giù per la montagna, si poteva sferrare un attacco rapido e potente al nemico (Tac. An., II,16). Dopo tutto, i Germani, come altri barbari, erano forti nel loro primo attacco indomito e furioso (Seneca. De ira, I,11; Tac. Germ., 30; Plut. Marius, 11,13; Flor., I,38,5; Dio Cass., XXXVIII,45,4-5; cfr.: Gundel 1937: 35-36, 40). Tuttavia, se non portava al successo, l’ardore si indeboliva gradualmente, gli attacchi successivi diventavano meno furiosi, dopodiché iniziavano la ritirata e la fuga (Tac. Germ., 4). Naturalmente, era praticamente impossibile mantenere la formazione durante una rapida discesa. Tuttavia, per i Germani, guerrieri individuali, questo era meno importante che, ad esempio, per i Romani. Per i Goti, con la loro tradizionale inclinazione al combattimento a distanza, il problema del primo assalto non era così acuto. Allo stesso tempo, i Goti potevano attaccare dall’alto non solo con la fanteria, ma anche con la cavalleria, per la quale, naturalmente, una tale discesa era più difficile (Amm., XXXI, 12, 17). Infine, la quarta ragione per cui i Goti cercarono di occupare le alture era una semplice fuga verso le colline, dove potevano trovare riparo, attendere un momento pericoloso o combattere un attacco (Procop. Bel. Goth., II, 23, 12; IV, 26, 4; Isid. Hist. Goth., 14; cfr.: Oros. Hist., VII, 37, 12). Pertanto, la cattura delle alture fu una mossa puramente tattica che consentì loro di ottenere determinati vantaggi durante la battaglia.

A differenza dei barbari, i soldati romani stavano in formazione e non correvano in avanti all’inizio, come accadde più tardi durante la battaglia di lancio. La formazione dà sicurezza ai combattenti e allo stesso tempo spaventa il nemico con la sua coesione, perché più tardi in Italia gli Ostrogoti furono spaventati dalla formazione dei Bizantini (Procop. Bel. Goth., IV,30,7; cfr.: Veget., III,18).

Quindi entrambe le parti si avvicinano l’una all’altra a passo d’uomo, osservando minacciosamente il nemico. Le linee sono apparentemente più distanti della portata delle armi da lancio (cfr. Tac. Hist., IV, 18). Dopo essersi riunite, le truppe lanciano un grido di battaglia, che dovrebbe ispirarle e far tremare il nemico (Caes. BC, III, 92). Vegezio (III, 18) raccomanda di prolungare il grido di battaglia della barrite quando le truppe si riuniscono a distanza di lancio del giavellotto, poiché in questo caso sarà supportato da raffiche di armi da lancio. Se il grido viene lanciato da lontano, allora ciò indica l’incertezza dell’esercito stesso e il nemico si abituerà al grido. La barrite è un canto di battaglia germanico adottato dall’esercito tardo romano (Amm., XVI, 12, 43; XXVI, 7, 17; Veget., III, 18; cfr.: Tac. Hist., II, 22; IV, 18; vedi: Jaehns 1880: 440). Anche Ammiano (XVI, 12, 43) descrive il suono della barrite in senso figurato, parlando dell’attacco di distaccamenti romani costituiti dalle tribù dei Cornuti e dei Brachiati: “gridavano la barrite estremamente forte: questo grido, nel calore stesso della battaglia, appare da un debole fruscio e gradualmente, come al solito, cresce, salendo fino al rumore delle onde che colpiscono le rocce”. Così, i Germani giudicavano il morale del nemico già dall’esecuzione della barrite. Naturalmente, la parte che cantava il canto con più furia e forza aveva maggiori possibilità di vittoria, spaventando e demoralizzando il nemico con una dimostrazione della propria forza (cfr. Tac. Germ., 3; Hist., II,22).

Tuttavia, Ammiano contrappone le barrite delle truppe romane alle grida di battaglia dei Goti. I Goti, immediatamente prima di uno scontro, di fronte al nemico, cantavano canti di battaglia in cui raccontavano i meriti dei loro antenati. È abbastanza ovvio che i Goti nel III-VI secolo erano ancora dominati dalla psicologia tribale “eroica”. La codardia era già considerata un vizio terribile tra gli antichi Germani (Tac. Germ., 12), e il capo doveva, combattendo prima di tutti, ispirare i guerrieri con il suo esempio (Tac. Germ., 7; 11; 13-14). Una visione del mondo simile era preservata tra i Goti (Procop. Bel. Goth., II, 1, 24; Jord. Get., 276). E tra loro il re doveva ispirare i suoi compagni tribù con il suo esempio, combattendo in prima linea (Procop. Bel. Goth., IV, 31, 17-20; 32, 34; 35, 26), e per codardia poteva anche essere rimosso e, al contrario, anche un comune guerriero poteva essere scelto come sovrano per il suo coraggio (Procop. Bel. Goth., I, 11, 5; II, 30, 5). Anche essendo solo, un nobile guerriero considerava suo dovere resistere a una massa di nemici in condizioni di terreno favorevoli (Procop. Bel. Goth., II, 5, 14), perché tali gesta di dei, re ed eroi erano cantate nei canti dei Goti (Jord. Get., 28; 43; 48; cfr.: 78-81). Era nel folklore canoro che era contenuta la memoria storica di un popolo analfabeta. Inoltre, in tempo di pace, le gesta degli antenati venivano cantate con l’accompagnamento della cetra (Jord. Get., 43). Naturalmente, sotto il sistema dei clan, non solo l’intera tribù, ma anche ogni clan e persino famiglia aveva i propri antenati che avevano compiuto gesta eroiche. Di conseguenza, i Goti cantavano le loro gesta, cercando di non disonorare la gloria dei loro antenati e, se possibile, di fare qualcosa di simile e passare alla storia. Probabilmente, le “grida dissonanti” di Ammiano significano che i Goti cantavano ciascuno del proprio antenato.

Confrontando questa descrizione di Ammiano (XXXI,7,11) con la sua testimonianza e il messaggio di Tacito sulla barrite, possiamo considerare che stiamo parlando di diversi gridi di battaglia. Tutti i guerrieri cantano la stessa barrite, ma qui, tra i Goti, ognuno canta la propria. Tuttavia, in un altro passaggio, lo stesso autore, raccontando la battaglia di Adrianopoli, scrive: “E inoltre, secondo l’usanza, la folla barbara ululava selvaggiamente e minacciosamente” (Amm., XXXI,12,11). Questa descrizione ricorda molto la barrite. Forse si tratta di fasi diverse della battaglia? Dopotutto, la barrite veniva sollevata per ispirare l’esercito immediatamente prima dello scontro. Tuttavia, la barrite venne sollevata dai Goti nella battaglia di Adrianopoli quando i Romani si avvicinarono e quando furono schierati in ordine di battaglia, e gli stessi Goti stavano progettando solo di difendersi, non di attaccare. È probabile che Ammiano stia descrivendo l’impressione generale dell’intero grido dell’esercito nemico. Dopotutto, è possibile cantare quando un combattente non è ancora entrato in contatto diretto con il nemico, per ispirarsi e spaventare il nemico, ma quando si va all’attacco, una persona non è più in grado di pronunciare chiaramente le parole a causa del sovraccarico mentale: può solo gridare. Così, anche la cavalleria dei Goti andò all’attacco con rumore e grida (Procop. Bel. Goth., IV, 29, 17). Lo storico goto Giordane indica direttamente il significato del grido di battaglia dei suoi compagni tribù: “incoraggiamenti incoraggianti” (Jord. Get., 155).

Quindi, quando entrambe le parti urlavano, qualcuno più audace poteva correre avanti e iniziare delle scaramucce, “combattimenti più facili” (leviora proelia). Questi potevano essere duelli di guerrieri, che divennero diffusi nel tardo periodo romano-bizantino a causa della diffusa barbarie dell’esercito. Dopo tutto, un duello è una delle caratteristiche degli affari militari “eroici”. Di solito, coloro che volevano dimostrare le proprie abilità combattevano (Procop. Bel. Goth., II, 1, 20; IV, 31, 11-16), il combattimento singolo tra comandanti non era una regola già nel VI secolo. Tra gli antichi Germani, un duello aveva un significato di culto speciale: era usato per predire chi sarebbe uscito vittorioso da una campagna. In un simile duello, combattevano un prigioniero della tribù contro cui era pianificata la campagna e un membro della tribù degli attaccanti, ciascuno con l’arma di suo padre. Di conseguenza, il vincitore avrebbe dovuto portare la vittoria alla sua parte nella campagna (Tac. Germ., 10). Pertanto, gli scontri militari tra tribù venivano spesso risolti con un duello, che era percepito come la volontà degli dei (Greg. Tur. Hist. Franc., II, 2). Va notato che per mantenere le abilità militari, i Goti in Italia tenevano duelli in presenza del re (Procop. Bel. Goth., III, 37, 4; cfr.: IV, 31, 11-16). Un’altra possibile spiegazione per questo “combattimento facile” di Ammino Marcellino potrebbe essere che si trattasse di un combattimento di lancio da lontano, quando i proiettili raramente raggiungevano il bersaglio, e qualcuno poteva correre avanti tra le linee e dimostrare la propria impavidità qui, impegnandosi in scaramucce con gli stessi temerari dell’esercito nemico. L’autore molto probabilmente dovette menzionare specificamente i duelli stessi.

Dopo aver gridato e aver fatto l’impressione desiderata sul nemico, i guerrieri si avvicinarono ancora di più, lanciando giavellotti. Quando il nemico si avvicina, l’efficacia dei suoi proiettili aumenta, quindi i guerrieri chiudono gli scudi, formando una “tartaruga”. Questo tipo di protezione è utilizzato da entrambe le parti, ma non si può escludere che, in particolare, nella battaglia di Salicia, solo i Romani abbiano realizzato la tartaruga, poiché si scopre in seguito che i Goti hanno una formazione meno densa.

Non conosciamo i dettagli del metodo dei Goti per formare la tartaruga. Il mondo barbarico europeo conosceva questo metodo di formazione da molto tempo. Secondo T. Livio (V,43,2), la tartaruga fu usata dai Galli già nel 390 a.C. durante un assalto. I Celti usavano solitamente questa formazione durante un assalto per proteggersi dai proiettili nemici (Caes. BG, II,6,2; VII,85,5). Tuttavia, in una vera battaglia a volte formavano una formazione simile per lo stesso scopo: proteggersi dai proiettili nemici (Liv., X,29,6; 12). Tuttavia, in quest’ultimo caso, potrebbero non esserci stati scudi a coprire le teste dei guerrieri (cfr.: Caes. BG, I,24-25). Dopotutto, T. Livio (XXXII, 17, 13) e Arriano (Tact., 11, 4) paragonano la formazione più densa degli opliti macedoni ellenistici, il sinaspismo, con la tartaruga romana. I Germani già al tempo di Cesare formavano una formazione densa, coprendo il fronte della formazione con scudi (Caes. BG, I, 52) e, a giudicare dai resoconti di Floro e Orosio, la sommità (Flor., I, 45, 13; Oros. Hist., VI, 7, 8).

Il “muro di scudi” compatto dei Goti apparentemente si sviluppò naturalmente grazie alla vicinanza dei ranghi. Questa formazione può proteggere meglio dalle armi da lancio, così come dagli attacchi della cavalleria (Procop. Bel Goth., IV,5,19). Inoltre, la coesione conferisce ulteriore sicurezza ai guerrieri. È possibile che la “tartaruga” gotica non avesse un “tetto” – i Goti non avevano una tradizione di crearne uno, ricordiamo che persino durante l’assalto di Filippopoli si proteggevano semplicemente la testa con gli scudi, senza unirli in una tartaruga (Dexipp. frg., 19). Una formazione simile sotto forma di falange con scudi estesi in avanti fu usata dai Germani di Ariovisto per respingere l’attacco delle legioni di Cesare già nel 58 a.C. (Caes. BG, I,52). Allo stesso tempo, Ammiano nel brano in esame nota che per i Goti, mantenere la formazione non era un elemento obbligatorio come per i Romani. Marcellino sottolinea specificamente che i Goti di solito non osservano rigorosamente la formazione, ma sono molto mobili nella formazione. Sebbene questa affermazione possa riferirsi alla formazione dei Goti in generale, e non alla tartaruga in particolare. Tuttavia, i Romani di questo periodo, quando sviluppavano il combattimento missilistico, non osservavano la formazione in modo così rigoroso come nel periodo precedente. La caratterizzazione dei Goti da parte di Marcellino come “recuperabili (reparabiles)” può riguardare la loro forza fisica, che ripristinano rapidamente per un secondo attacco. Di conseguenza, questa caratteristica può riguardare i guerrieri in generale, e non solo in relazione a questa particolare battaglia.

Alla fine le truppe si radunarono. L’espressione di Marcellino “piede si unì a piede” (pes cum pede conlatus est) non deve essere necessariamente presa alla lettera – significa solo combattimento ravvicinato, poiché più avanti nel brano la discussione riguarda l’azione di un’arma da lancio e di armi bianche, che furono utilizzate durante lo sfondamento diretto dell’ala sinistra dei Romani. L’autore usa un’espressione simile in un altro brano che descrive la battaglia dei Romani con gli Alemanni, quando non c’è ancora un combattimento corpo a corpo (Amm., XXVII, 2, 6: cum pede conlato). Nello stesso tempo, in un altro luogo, descrivendo la battaglia con i Persiani, Ammiano apparentemente parla di combattimento ravvicinato (Amm., XXV, 1, 18; cfr.: XVI, 2, 13).

Marcellino non spiega perché i Goti sfondarono l’ala sinistra dei Romani. Forse era debole, ma la situazione fu corretta dalla riserva che apparve all’ultimo minuto. Inoltre, la riserva è menzionata solo nell’esercito romano; i Goti apparentemente non ne avevano una.

Nel mezzo di una battaglia di lancio, i guerrieri più coraggiosi o persino i distaccamenti avrebbero tentato di attaccare la linea nemica, incontrando prima uno sciame di missili da lancio e poi, man mano che si avvicinavano, le spade del nemico (Amm., XXXI,7,13). Tra i Goti, con il loro ethos “eroico”, in particolare il loro rispetto per il coraggio personale, gli uomini più nobili combattevano in prima linea con i loro compagni (Procop. Bel. Goth., I,7,3). Dovevano mantenere il loro alto status con il loro esempio. Inoltre, i giovani energici potevano farlo. Come aveva già notato Tacito (Germ., 14), i giovani nobili dei Germani andavano dalle tribù in guerra anche in tempo di pace. Un principio simile era conservato tra i Goti: i giovani venivano inviati agli eventi più rischiosi, in cui avrebbero dovuto acquisire esperienza militare (cfr. Zosim., IV,25,3). Forse questo faceva parte del rito di iniziazione (cfr. Caes. BG, I,1). Probabilmente, nell’esercito dei Goti c’era anche la divisione in base all’età dei guerrieri, che è comune per i popoli primitivi, che possiamo osservare, ad esempio, tra i Romani e i Papuani. Tattiche basate su questo principio sono osservate tra gli Ostrogoti-Greutungi, che nel 386 tentarono di attraversare il Danubio. Prima attraversarono i giovani, poi le persone di mezza età, e poi tutti gli altri (Zosim., IV, 38, 5). Probabilmente, in altre situazioni tattiche le funzioni dei giovani più energici erano le stesse. Nel 365 i Goti inviarono 10.000 persone nel fiore degli anni all’usurpatore Procopio (Zosim., IV, 7, 2), apparentemente la parte più pronta al combattimento dei loro guerrieri.

Torniamo alla descrizione della battaglia. Ammiano menziona che i cavalieri presero parte alla battaglia, inseguendo la fanteria in fuga, tagliandola con le spathae sulla testa e sulla schiena. Non è chiaro come questo episodio corrisponda alla battaglia principale della fanteria, poiché la battaglia durò a lungo. Se questa non è retorica ordinaria, allora stiamo parlando di un episodio della battaglia.

Poi l’autore, sebbene retoricamente, nota una caratteristica interessante: i combattenti tagliavano le caviglie dei guerrieri caduti, apparentemente in modo che i feriti non potessero rialzarsi. I guerrieri ricevevano ferite con armi da lancio: fionde e frecce. Poiché la fionda non era un’arma comune tra i Goti, poiché lanciavano persino pietre con le mani durante un assalto (Dexipp. frg., 17b), Ammiano descrive le ferite dei Goti, non dei Romani. Qui parla anche di ferite ricevute in combattimento ravvicinato (cfr.: Amm., XXXI, 13, 4-6). Dopo aver lanciato le loro lance, i guerrieri tagliavano con le spade (Amm., XXXI, 13, 5). E se il nemico non aveva il tempo di coprirsi con uno scudo, allora un forte colpo di lama poteva tagliargli la testa. Sebbene, se il guerriero vedesse chi taglia, allora, anche senza avere il tempo di coprirsi con uno scudo, la testa potrebbe istintivamente scattare via e la ferita di spada descritta dall’autore sarebbe difficile da infliggere. Molto probabilmente, una tale ferita è stata inflitta da qualcuno che correva da dietro. Poiché gli elmi erano rari tra i Goti, allora stiamo di nuovo parlando delle ferite dei barbari. Se le ferite da un proiettile di fionda e da frecce venivano inflitte in un combattimento a lungo raggio, allora le ferite da una spada venivano ricevute durante le scaramucce corpo a corpo in battaglia.

La battaglia dura a lungo. Marcellino nota giustamente che in battaglia l’atteggiamento psicologico di ogni guerriero e dell’intero esercito gioca un ruolo cruciale. I Goti non si ritirano – apparentemente, la lealtà al giuramento si faceva sentire, il che non consentiva loro di ritirarsi. Naturalmente, il combattimento corpo a corpo non può durare a lungo (Clausewitz 1941: 431), quindi, nonostante la retorica di Ammiano, il tipo principale di battaglia a Salicia deve essere riconosciuto come lancio. Ciò non esclude il fatto che in certe aree del fronte potessero passare al combattimento corpo a corpo. Soprattutto durante l’attacco dei Goti sul fianco sinistro dei Romani e la respinta di questa svolta da parte del distaccamento di riserva. Apparentemente, un tale metodo di combattimento era tipico dei Goti. Nelle fonti troviamo un numero significativo di riferimenti a battaglie prolungate tra Goti e Romani, Gepidi, Kutriguri e Bulgari, spesso dalla mattina alla sera (Amm., XXXI, 13, 11; Jord. Get., 99-100; 177; Ennod. Paneg., 12, 65-66; Procop. Bel. Goth., I, 18, 29; II, 27, 9-10; IV, 18, 22; 32, 13-14; 35, 31; 32; cfr.: Greg. Tur. Hist. Franc., IV, 42 (Longobardi e Franchi, 571)). Nel VI secolo, i Bizantini, come i Kutriguri, usarono l’arco come principale arma offensiva e, prima, giavellotti e dardi, ma anche il ruolo delle armi da lancio era importante. Vale la pena considerare che i Goti, a quanto pare, di solito non avevano una seconda linea di truppe che potesse essere portata in battaglia quando necessario, dando ai combattenti la possibilità di riposare. Ciò testimonia anche il predominio del combattimento a lungo raggio tra i Goti, che poteva durare a lungo. Così, la battaglia degli Ostrogoti con i Bulgari, alleati dei Bizantini, a Sirmio (504/505) durò a lungo con successo variabile (Ennod. Paneg., 12,66-67). Poiché nel suo discorso prima della battaglia il capo dei Goti menziona una pioggia di lance che coprì il cielo, si può supporre che i Goti combatterono contro i Bulgari, lanciando queste lance leggere (Ennod. Paneg., 12,65). Inoltre, ricordiamo che i Goti portavano avanti anche assalti dalla mattina alla sera, e che il ruolo del combattimento a distanza era anch’esso grande (Amm., XXXI,15,15; Procop. Bel. Goth., I,23,27). Con l’arrivo dell’oscurità, la battaglia gradualmente si placò e distaccamenti separati da entrambe le parti tornarono all’accampamento.

Quindi, guardando la descrizione della battaglia di Salicia, vediamo immediatamente un fenomeno interessante dello stile di lavoro di Marcellino. Da un lato, il corso della battaglia stessa è presentato vagamente, la disposizione delle truppe non è affatto menzionata, ma, dall’altro lato, questa battaglia è mostrata come una tipica battaglia tra Romani e Goti. Qui, tutte le caratteristiche sono riunite. Questa è una caratteristica di battaglia, non una battaglia specifica. La tattica dei Goti, secondo la descrizione, sembra così: prima, i Goti cercheranno di catturare le alture sul terreno per minacciare i Romani, ma non ci sono riusciti, quindi – una battaglia campale: gli avversari convergono, si ispirano con un grido, si allineano a tartaruga, si avvicinano a una distanza di un lancio di lancia e scambiano il fuoco. In questo momento, singoli guerrieri coraggiosi o distaccamenti si impegnano in un combattimento corpo a corpo. Una tale battaglia durò per molto tempo, in questo caso, dall’alba al tramonto. Durante la battaglia, i Goti sfondarono il fianco sinistro dei Romani, ma la situazione fu corretta dalla riserva e la battaglia si concluse con un pareggio.

Autore : А.К. Нефёдкин (AK Nefedkin)

Bibliografia: 

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Fonte: X Legio

 

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