Popoli e comunità in armi
In più di un’occasione, nel Medioevo, un intero popolo o società fu mobilitato per la guerra, a scopo di invasione e conquista (come nel caso dei popoli germanici nel IV, V e VI secolo), o, al contrario, a scopo difensivo, come quando una città era sotto assedio, quando i Sassoni furono attaccati dalle armate di Carlo Magno, o quando gli Svizzeri si opposero alle imprese di conquista di Carlo il Temerario.
In altre parole, la nozione di mobilitazione di massa (Landsturm) era tutt’altro che ignorata, in vari modi e sotto vari nomi, nonostante la debolezza e la relativa inefficienza delle istituzioni statali in grado di mobilitare le forze disponibili nel modo più ampio possibile e nonostante tutti i problemi economici e umani che inevitabilmente ne derivavano. In queste condizioni, per lo meno, si creò un’accoppiata tra la società e il suo esercito, con tutti chiamati a diventare combattenti in caso di necessità. Per lo storico, studiare il combattente significa quindi, in un certo senso, studiare la società nel suo complesso.
Sebbene non sia possibile generalizzare, ognuno di questi combattenti doveva mantenersi a proprie spese e procurarsi un equipaggiamento militare commisurato alle proprie risorse e capacità. Tra gli altri esempi, è su questa base che fu redatto lo stemma di Enrico II Plantageneto (1181), che era solo una tappa di un’evoluzione secolare risalente al nugolo anglosassone e che sarebbe proseguita con lo Statuto di Winchester del 1285 e con varie disposizioni legislative adottate nel XIV e XV secolo.
La guerra è quindi vista come un’attività normale, attesa. Tutti dovevano prepararsi ad essa; era un apprendistato universale, a seconda dei costumi del popolo a cui si apparteneva. Alcuni combattevano con l’arco, altri con picche, lance e fionde. Le armi da difesa sono spesso rudimentali o addirittura inesistenti. Per i più svariati motivi (non solo per il costo delle cavalcature), queste persone, queste comunità, queste “comuni” in armi, facevano spesso la guerra a piedi, anche se, nel caso di un particolare popolo “barbaro”, potevano esserci parecchi cavalieri. Ma non sembra che l’Occidente abbia avuto l’equivalente dei cosacchi, dei tartari o dei mongoli della grande steppa eurasiatica, semplicemente perché queste comunità in armi provenivano da popoli sedentari piuttosto che nomadi..
Tali mobilitazioni si sono svolte principalmente in piccole società o comunità geograficamente concentrate. Un certo grado di coesione interna era essenziale. Oggi sappiamo che praticamente tutti i popoli germanici che, attraverso vari processi, si insediarono all’interno del limes romano, avevano popolazioni ben al di sotto del mezzo milione di uomini. Allo stesso modo, la mobilitazione di massa funzionava abbastanza bene nelle città fiamminghe del XIV secolo, dove il senso civico degli abitanti era ben sviluppato e l’organizzazione municipale vigorosa: alcuni esempi suggeriscono che una città di 20.000 abitanti poteva, in questo contesto, mettere in campo una forza di 3.000 o 4.000 combattenti.
Ma anche quando il pericolo era pressante, anche in casi di “pericolo imminente”, anche quando lo Stato aveva una lunga tradizione di coercizione, era impossibile per un Paese di dimensioni significative mobilitare tutto il suo potenziale umano: supponendo che il regno d’Inghilterra avesse 5 o 6 milioni di abitanti intorno al 1300, non sarebbe stato in grado di mobilitare non solo un milione di uomini, ma nemmeno la metà. E poi, che senso avrebbe avuto una tale mobilitazione?
Tuttavia, anche all’alba del XIV secolo, in una regione socialmente ed economicamente avanzata come l’Italia settentrionale, il ricorso al prelievo generale era tutt’altro che fuori discussione. Lo dimostra il trattato di Teodoro Paleologo (1291-1338), scritto prima in greco e poi tradotto in latino dal suo autore, di cui è sopravvissuta la traduzione francese di Jean de Vignai con il titolo Enseignemens et ordenances pour un seigneur qui a guerres et grans gouvernemens a faire [1] . Questo trattato, scritto dal secondogenito dell’imperatore bizantino Andronico II (circa 1258-1332) e da Violante – o Yolande – , figlia di Guglielmo VII, marchese di Montferrat, e nipote di Alfonso X di Castiglia, riflette la duplice esperienza di un uomo che partecipò alla difesa di Costantinopoli e governò il marchesato di Montferrat. Egli raccomanda che il signore naturale, che per questo motivo ha poco da temere dai suoi sudditi, il signore “dell’eredità e della successione”, in contrapposizione ai “tiranni”, ai “signori avventurosi” e ai “governatori mutevoli”, prescriva che tutti gli abitanti della sua terra siano posti in stato di difesa: “Si conviene che il detto signore ordini in tutta la sua terra che ogni città, castello o paese abitato H debba presentare per iscritto tutti gli uomini che abitano in detti luoghi e in ciascuno di essi e specialmente gli uomini della difesa, cioè i maschi di .xv. anni fino a .Ixx. (…). Che i detti difensori abbiano tutte le armi e nelle loro mani escus e qualche guarnigione di teste e di grossi versamenti, e gli escuiers abbiano spade, lance o arses e altre armi comuni, e quelli che possono e vogliono abbiano balestre con i loro apparati”.
Se necessario, si organizzerà una mobilitazione di massa, un “branco”, una “accolita generale”: tutti verranno, con coltelli, aratri, forconi e attrezzi, almeno se il previsto incontro con l’invasore deve avvenire entro un giorno di marcia.
I combattenti al potere
Di fronte al modello della mobilitazione generale, che in un certo senso significa che ogni “civile” è un potenziale “soldato” perché la guerra riguarda tutti esistenzialmente, perché la guerra è consustanziale alla vita, un altro modello attraversa l’Occidente medievale, Si tratta di un modello in cui la stragrande maggioranza della popolazione era esente dalla guerra o ne era tenuta fuori, o addirittura disarmata del tutto, mentre la classe guerriera approfittava della sua posizione di forza per stabilire e garantire il proprio dominio. Naturalmente, praticamente in tutte le società esiste un parallelo tra le strutture e l’organizzazione del potere o dei poteri e le strutture e l’organizzazione degli eserciti. In altre parole, praticamente tutto il potere ha un aspetto militare. Uno degli attributi fondamentali del potere è la spada. Tuttavia, il legame tra potere e forza armata può essere più o meno discreto, implicito o mediato.
Un uomo di Stato detiene il potere per eredità o per consenso, e in virtù di questo potere avrà a disposizione la forza armata, anche se non è direttamente alla base del suo potere. D’altra parte, il Medioevo occidentale tendeva a caratterizzarsi per il fatto che era la forza a garantire inizialmente il potere, come molti teorici degli affari pubblici si affrettarono a sottolineare, soprattutto a partire dall’XI secolo. Oggi più che mai gli storici vedono comunemente il sistema feudale come la detenzione del potere su gruppi umani da parte di guerrieri, eventualmente aiutati da altri guerrieri che partecipano a questo potere, e nel castello “forte” come l’arma di dominio per eccellenza. In questo contesto, la guerra ha scopi sia endogeni che esogeni: si tratta tanto di proteggere un territorio da nemici esterni, estendendo il dominio a spese di vicini o rivali, quanto di ottenere con la violenza o la minaccia della violenza la maggior parte possibile dei beni materiali prodotti da tutti coloro che sono soggetti al dominio in questione. L’uomo di guerra per eccellenza è molto più di uno strumento di potere; è, o ha, il potere. Il bellator, il pugnator nello schema dei tre ordini, non è l’insieme dei combattenti come classe socio-professionale, ma la potens e persino, in ultima analisi, il solo rex.
Ma questo potere, quasi sempre ereditario, tende a essere considerato prestigioso e legittimo. Ogni comunità ha quindi il diritto e il dovere di difendersi e ha il vantaggio di delegare questo compito a un gruppo di uomini, un’élite di coraggio e abilità fisica, che si occuperà della difesa e della giustizia (le due nozioni sono intimamente legate) a beneficio di tutti. Questa è la ragion d’essere dei nobili e dei cavalieri, che condividono questa responsabilità con il principe o il re. Finché i cani da guardia della società (per usare il paragone usato dal cronista Jean de Venette) [2] svolgono correttamente i loro compiti, la loro posizione sociale e il loro status sono giustificati e rispettabili. Ma se perdono la capacità di difendere la comunità che ha affidato loro questa missione o, peggio ancora, se si comportano nei confronti di questa comunità come lupi famelici, allora il loro ruolo può essere fondamentalmente messo in discussione e la ribellione può diventare legittima..
I combattenti sono quindi sia una minoranza che un’élite. Una minoranza, tanto che al culmine di una mobilitazione “generale” che coinvolge tra un quarto e un ottavo della popolazione, il numero di combattenti si aggirerà intorno all’1, 2 o 3%. Questi soldati riceveranno una lunga e accurata formazione militare fin dall’infanzia. In una forma o nell’altra, le esercitazioni di guerra regolari (a cui si aggiunge la caccia) permetteranno loro di mantenere e persino migliorare le loro capacità. Costituiranno un gruppo più o meno coeso e coerente, con i propri costumi, rituali e cultura, anche se questa cultura, a causa della loro posizione dominante, si irradia in tutta la società. Hanno le armi più belle, i cavalli più costosi, gli armamenti più lussuosi e terrificanti, perché l’apparenza è un mezzo per impressionare gli avversari e per imporsi sulla comunità di cui sono i leader. Probabilmente, nessuna civiltà ha esaltato la figura del guerriero quanto il Medioevo occidentale attraverso il cavaliere e la cavalleria. In particolare, la cavalleria ha permesso di superare l’antagonismo tra guerra e cristianesimo.
Tra la fine dell’XI e la fine del XII secolo emerse un tipo umano molto originale: il cavaliere crociato. Da qui l’esistenza, così singolare e quasi aberrante, dei “monaci soldati” (Templari, Ospitalieri, Teutonici…). Da qui i “santi militari” (San Giorgio, San Maurizio, San Michele, ecc.), l’esaltazione del valorosissimo Giuda Maccabeo, la rappresentazione sul frontone del santuario di Sant’Hadelin, risalente alla prima metà dell’XI secolo, nella chiesa di Saint-Martin a Visé, di un Cristo nudo, rivestito di un hauberd, con, tutt’intorno, l’iscrizione “Christus belli insignis, dominus potens in prelio”. [Dall’imperatore (del re) al cavaliere, il combattente di base, e persino allo scudiero, aspirante al cavalierato, esisteva più o meno una certa comunità di vita, una compagnia, che alla fine spaccava la società in due. Il movimento della Pace di Dio, invece di creare questa spaccatura, l’ha riconosciuta.
È nei primi decenni del XIII secolo che la cavalleria raggiunge il suo apogeo, come testimonia non solo la vita di Guglielmo il Maresciallo, “il miglior cavaliere del mondo”, ma anche la sua morte, quando chiese di essere sepolto accanto all’Ordine del Tempio [4] . Dopo il 1250 e soprattutto dopo il 1300, la Chiesa sembra aver perso gradualmente interesse per il significato spirituale della cavalleria. Il suo coinvolgimento nel cerimoniale cavalleresco divenne superficiale. I valori cavallereschi divennero stereotipati. La creatività fu sostituita dal rinnovamento e dalla riproduzione di un modello ancora potente e prestigioso, ma fisso e sbiadito. Le formule si ripetono meccanicamente. Se i valorosi di Froissart avessero creduto ancora nella cavalleria, si sarebbero ingannati. Da quel momento in poi, la cavalleria oscillò tra l’immaginario e il rituale, tra la fantasia e la convenzione sociale.
A partire dal XII secolo, e soprattutto dal XIII, questi combattenti, che saranno raffigurati sulle loro tombe come guerrieri “per l’eternità” (S. Guilbert), appartenevano a diversi strati della nobiltà. La loro vocazione militare si basava in gran parte sui feudi che possedevano, la cui rendita permetteva loro di combattere e li obbligava a farlo. Era sia un dovere che un privilegio. A questo ambiente partecipavano anche i guerrieri che non avevano feudi, o che non li avevano ancora, ma che desideravano entrare nel mondo aperto dell’aristocrazia secolare. Gerarchia sociale, gerarchia del potere, gerarchia militare: tre nozioni strettamente intrecciate, quasi indistinguibili.
Tuttavia, questi combattenti erano ben lontani dall’avere tutti gli stessi poteri. Gradualmente, in seguito a un fenomeno di riconcentrazione politica (dopo lo sgretolamento della prima età feudale), a livello dei grandi feudi, principati e regni, questi combattenti vennero semplicemente inclusi in quella che si potrebbe definire la classe dirigente secolare. In ogni caso, essi formano un ordine o uno Stato all’interno della società. In definitiva, solo loro hanno il diritto di portare le armi (la spada del gentiluomo, il diritto di portare le armi). Tutto ciò ha portato, ad esempio, a questa ordinanza del 1478 promulgata per la città di Rennes:
“Si proibisce inoltre e si rinvia dall’auctority di detto tribunale a tutti i detti abitanti di non andare in futuro lungo i marciapiedi e le strade di detta città e forsbourgs dopo le nove del mattino senza luce o bastoni, arredi o armi per punizione di coloro che saranno trovati a fare il contrario della catena e altre punizioni arbitrali. È anche proibito e vietato a tutti i meccanici, operai e altri abitanti di detta città e forbourgs di non portare pugnali, spade, bracquemars o altre armi di giorno o di notte in detta città in futuro, bracquemars ne autres bastons ne ferremens aultrement que pour tailler leur viande sauf es gens de la justice et es gentils hommes et leurs serviteurs, sur paine d’être icels bastons et ferremens confisquez et les faisans au contraire pugniz et corrigez par detempcion de leurs personnes et biens a esgar de justice” [5].
Da qui lo stupore di Philippe de Voisins, in pellegrinaggio a Gerusalemme, quando nota, alla fine del XV secolo, che a Venezia “c’è una tale institucion (…) che ogni nobile o estat pellegrino lascia le armi a palazzo ”[6]. Allo stesso modo, secondo le Siete Partidas di Alfonso X di Castiglia, i nobili di questo regno erano tenuti a portare sempre con sé la spada [7].
Si avviò così un intero processo per limitare la guerra a una parte della popolazione, da un lato perché nulla era più pericoloso che armare il popolo comune (tema frequentemente espresso a partire dal XIV secolo: ma esisteva davvero prima di allora?), dall’altro perché, in ogni caso, contro il nemico esterno, il popolo comune valeva poco o nulla militarmente. Se i beni comuni sono trattati in modo adeguato, non c’è rischio di sovversione sociale, e se sono usati con saggezza, il loro valore militare, lungi dall’essere nullo, può essere decisivo.
Professione: uomo di guerra
Tuttavia, il dilemma non era necessariamente tra un esercito “popolare” e un esercito composto esclusivamente dalle classi dirigenti, o dai governanti e dal loro entourage. Infatti, a causa dell’incapacità o della mancata volontà di ricorrere alla mobilitazione di massa, solo una piccola frazione accuratamente selezionata della popolazione fu mantenuta. Questa frazione
è stata ovviamente scelta tra i più abili, i più esperti: quasi tutti i volontari per i quali l’avventura della guerra esercitava un certo fascino. Torniamo al consiglio di Teodoro Paleologo: quando si deve combattere a più di un giorno di marcia, solo la metà di coloro che possono essere mobilitati dovrà intervenire; l’altra metà resterà a casa: “E se il detto signore o i suoi ufficiali vorranno fare qualche branco o host general per un mese o più contro i suoi nemici e ribelli, è mia opinione che la terra in cui vivono mille uomini debba soffrire … quando sono tutti uomini nobili e ben arredati e a spese della gente comune”.
Gli Stati ricorrevano anche a combattenti professionisti, che non avevano alcun potere in sé e di solito non pretendevano di averne, ma cercavano semplicemente di impiegarsi per vivere. È questo il fenomeno del mercenarismo, sia straniero che autoctono: arcieri inglesi assunti dai duchi di Borgogna, balestrieri genovesi, genetaires spagnoli, picchieri svizzeri, minatori di Liegi e cannonieri tedeschi. Queste persone, il più possibile addestrate, diedero vita a quello che si può definire un esercito. In altre parole, questo appello ai “commercianti” il cui mestiere era la guerra permetteva di evitare il ricorso massiccio al popolo, a quei “comuni” di cui Philippe de Mézières diceva alla fine del XIV secolo che “non provano ribellione contro i loro signori naturali perché si sentono nella servitù della gleba” [8]. Questi commercianti supplivano alle carenze militari della classe dirigente, se questa perdeva interesse per la guerra e basava il suo potere su altri principi o molle. Ciò avvenne nelle città italiane almeno a partire dal XIV secolo, e anche in Inghilterra alla fine del Medioevo, anche se in misura minore.
Ma il mercenarismo aveva anche i suoi inconvenienti. Questi mercenari sfuggivano spesso al controllo del loro datore di lavoro – lo Stato – seminando il caos senza ritegno e, cosa più grave, cercando di impadronirsi del potere, in tutto o in parte. Si pensi ai Cottereaux, ai Brabançons e ai routiers che afflissero il Paese dalla metà del XII secolo fino ai primi decenni del XIII, alle Grandes compagnies del XIV secolo, agli Écorcheurs del XV, alle compagnie d’avventura e alla condotta in Italia. Un’ultima volta, permettetemi di tornare a Teodoro Paleologo. I tiranni avventurosi, dice, che governano “con la forza e con il piacere, non con il diritto o con l’amore”, non possono ricorrere ai loro sudditi nel momento del bisogno. È meglio che usino “per la difesa loro e delle loro terrez gens cruielz portanz armez a spese del popolo delle loro dette signorie”, a differenza del “signore naturale (che) deve avere più fiducia nel suo popolo che nei forains e negli estranei, a causa del dovere e dell’amore naturale”. Una volta finita la guerra, il “tiranno” avrebbe congedato gli “escuiers et gens d’armes forains” che aveva reclutato, in varie lingue, “da fuori del paese”. Ma non è detto che questo licenziamento sarà così facile: “E anche vediamo un grande pericolo (…), cioè quando i detti corruttori vedono che hanno una grande signoria e una grande comunità nella terra dove sono venuti a servire, spesso vogliono vincere la detta terra e si sforzano non poco di tenerla come propria nella volontà del loro coraggio (…). Perché la maggior parte di queste persone sono di scarsa coscienza verso Dio, e dubitano poco del pudore e della ripresa delle persone, ma sono avide di guadagnare, e audaci e crudeli, perché per questo si mettono in pericolo di morte, solo per avere il guadagno”.
Non solo questi soldati professionisti rappresentavano un pericolo per l’ordine pubblico, per il potere e per la sicurezza e la prosperità del Paese che li impiegava, ma anche, nonostante le loro presunte capacità e conoscenze tecniche, c’era un dubbio diffuso sulla loro dedizione. Per questo motivo diversi autori consigliavano al principe di usarli con parsimonia e solo come ultima risorsa.
Tuttavia, man mano che la guerra diventava sempre più professionale, che la mobilitazione di massa non era più all’ordine del giorno, che il sistema feudale perdeva gran parte del suo scopo originario e che molti nobili non erano più interessati a prestare servizio in guerra, a meno che non fossero costretti a farlo come elementi ausiliari, gli Stati erano portati a reclutare sempre più combattenti professionisti. Allo stesso tempo, cercarono di rafforzare le strutture di gestione (disciplina, ecc.), di instillare un certo numero di valori nella mentalità di questi sudoyer (onore, lealtà), in breve di trasformarli in soldati, attirando il maggior numero possibile di membri dell’ex nobiltà, almeno a livello dirigenziale.
Non combattenti
Quindi, a seconda delle circostanze, i non combattenti de facto o de jure rappresentavano una massa variabile. Diciamo che, in pratica, anche quando la necessità era estrema, c’erano sempre dei non combattenti: non solo donne, ma anche malati e disabili. I giovani sotto i 12, 14, 16 o 18 anni. Gli anziani, oltre i fatidici 60, 64 o 70 anni. Gli ebrei furono sistematicamente esclusi? Non è certo. E gli infedeli, gli eretici, tutti coloro che si presentavano come “obiettori di coscienza”, chierici e religiosi? Anche in questo caso ci sono delle variazioni. Alla fine del X secolo, di fronte ai ripetuti attacchi di Al-Mansour, i monaci di Cluny, racconta Raoul Glaber, furono indotti “ob exercitus raritatem” a prendere le armi in guerra [9]. In caso di legittima difesa, un monaco o un chierico poteva usare le armi senza commettere peccato. Intorno al 1170, Gerhoch di Reichersberg concordava sul fatto che i monaci, completamente equipaggiati, con lancia e scudo in mano, potessero affollare i bastioni per impressionare i Saraceni; secondo lui, potevano anche lanciare pietre e giavellotti contro gli avversari per tenerli a distanza, purché non avessero intenzione di uccidere [10].
Possiamo quindi comprendere le esitazioni degli storici demografi quando conoscono la popolazione di una città solo in termini di numero di uomini che essa può mobilitare: questo numero deve essere moltiplicato per 4, 6, 8 o 10 per ottenere il numero di abitanti della città in questione?
Ma dal momento in cui prevalgono il secondo e il terzo modello, dal momento in cui ci allontaniamo dalla nozione di popolo in armi, il numero dei non combattenti aumenta nelle stesse proporzioni. È un dato di fatto che, in numerose regioni, durante gli ultimi secoli del Medioevo, i contadini non solo combattevano difficilmente, erano scarsamente armati (vedere a questo proposito gli inventari dei contadini borgognoni del XIV secolo elencati e analizzati da Françoise Piponnier), ma non avevano nemmeno bisogno di armarsi. Se lo fa, lo fa sotto la pressione delle circostanze, all’insaputa dei poteri forti, che, come minimo, adottano un atteggiamento esitante. Non senza ragione: nel 1434, nella Normandia iancastriana, fu istituito un sistema per armare i contadini e dividerli, sul modello urbano, in decine, cinquanta e centinaia. Lasciate che “ogni uomo della pianura (…) resti impalato e tenda agguati lungo le strade”. Nel giugno del 1435, il balivo di Caux diede ordine ai suoi visconti di “vestire e armare i nobili del paese di Caux affinché si trovino in compagnia del popolo ambasciatore per resistere alle imprese degli avversari, se necessario e se la professione lo richiede”. Tuttavia, queste misure si ritorsero quasi immediatamente contro la potenza dei Lancaster che le aveva adottate. “Poiché quelli di Caux sapevano come battere”, dice l’autore della Cronaca normanna, “non accettarono più i loro padroni inglesi e si ribellarono”. A un’intera massa di persone fu sempre più chiesto di pagare, di fornire un contributo materiale, una forza lavoro aggiuntiva sotto forma di lavoro forzato. Per ragioni tattiche, politiche ed economiche, furono tenuti fuori dalla guerra, il che naturalmente non significa che sfuggissero alle devastazioni che essa portava. Fu fatto almeno un tentativo di sviluppare un diritto del non combattente, le cui radici risalivano ai canoni sulla pace e la tregua di Dio dell’XI secolo (Honoré Bonet).
Conclusione
Come si capisce: grossomodo, i tre modelli di combattenti menzionati corrispondono a loro volta a tre fasi successive della storia del Medioevo occidentale. La nozione di popolo in armi appartiene specificamente all’Alto Medioevo, la coincidenza tra potere e funzione guerriera è specifica del periodo feudale, mentre la prima modernità vede, con una crescita significativa dello Stato e delle istituzioni pubbliche, l’affermarsi della figura del soldato, del militare di carriera. Tuttavia, sarebbe facile trovare, ad esempio nei resoconti dell’epoca merovingia, uomini di guerra professionisti. E ci si può chiedere se, in un certo senso, l’ideale cavalleresco, così come veniva definito nell’XI-XII secolo, non faccia già del cavaliere un soldato, al servizio del principe, della comunità, del bene pubblico. Al contrario, l’intervento delle comunità armate non scomparve del tutto dalla storia della fine del Medioevo, anche se in misura molto più modesta rispetto all’epoca dei Vandali o degli Ungheresi.
In definitiva, tre fenomeni sembrano particolarmente sorprendenti: questo straordinario tipo di combattente che era il cavaliere (da cui, tra l’altro, la formidabile letteratura a cui ha dato origine); il fatto che, dal 950 al 1150 circa, il combattente è la figura centrale della società laica, poiché tutti gli altri gruppi umani, tutte le altre attività si organizzano attorno a lui (dopo di che, il combattente diventa una figura tra tante altre, è opportuno studiarlo come si studierebbe l’uomo di legge o il mercante); infine il fatto che l’intervento dello Stato fa sì che i combattenti siano gli unici al suo servizio, confinati all’interno delle strutture statali; lo Stato non solo monopolizzava la violenza legittima, ma la canalizzava anche: tutti questi fenomeni cominciarono a prendere piede in Occidente durante gli ultimi due o tre secoli del Medioevo..
Note:
1. Ed. C. Knowls, Londra, 1983
2. Cronaca latina di Guglielmo di Nangis e dei suoi successori dal 1113 al 1300 e continuazioni di questa cronaca dal 1300 al 1368, a cura di H. Géraud, t.II, Parigi, 1843, p. 260.
3. Riproduzione a colori di questo reliquiario, in argento parzialmente dorato, Art roman dans la vallée de la Meuse aux XI; XIV et XIII’ siècles, testi e commenti di S. Collon-Gevaert, J. Lejeune, J. Stiennon, prefazione di G. Faider-Feytmans, Bruxelles, 1965, p. 136.
4. “Quando fuggii oltremare, da allora in poi / diedi il mio corpo al Tempio / A (i) jesir, quando morirò, / In qualunque luogo sarò” (The History of William Marshal, Count of Striguil and Pembroke, Regent of England from 1216 to 1219, a cura di P. Meyer, t. II, Parigi, 1904, p. 295, v. 18233-18236). G. Duby, Guillaume le Maréchal ou le meilleur chevalier du monde, Parigi, 1984, p.21. L’idea di una competizione internazionale tra cavalieri per vedere chi è il migliore è ancora molto viva nel XIV secolo. Appare in diverse occasioni nelle Cronache di Froissart e nelle opere di Geoffroi de Charny. A Du Guesclin spettava ufficialmente il titolo di “Il miglior cavaliere che abbia mai portato una spada”. / Per la sua cavalleria, che fu ben messa alla prova, / Dopo la sua morte gli fu concessa una grazia / Che sarà sempre rinomata, / Perché con il .ix. coraggiosa è la sua grazia numerosa, / La decima chiamata dalla sentenza pronunciata” (Cuvelier, Chronique de Bertrand du Guesclin, ed. E. Charrière, 1. 1, Parigi, 1839, p. 349, v. 9870-9875).
5. Citato da J.P. Leguay, La rue au Moyen Age, Parigi, 1984, p. 176.
6. Le voyage à Jérusalem de Philippe de Voisins, seigneur de Montau, a cura di Ph. Tamizey de Larroque, Parigi-Auch, 1883, p. 22.
7. Citato da J.N. Hillgarth, The Spanish Kingdoms 1250-1516, I, 1250-1410: precarious balance, Oxford, 1976, p. 48-49.
8. Nella deplorevole e consolatoria Epistola sul fatto della deplorevole sconfitta del nobile e valoroso re di Ungheria da parte dei Turchi. Per vendicare Nicopoli (1396), Philippe de Mézières ritenne necessario radunare un esercito guidato da “quattro virtù morali: il governo, la disciplina cavalleresca, l’obbedienza e la giustizia”. A tal fine, egli distingue tre gradi di combattenti: il grado superiore (re, principi), il grado intermedio, che riunisce, in modo notevole, nobili e borghesi, e il primo grado, gli “uomini del popolo”. Ecco cosa dichiara di loro: “Per quanto riguarda il primo grado dei combattenti del cristianesimo, vale a dire le persone pie, le persone del popolo, alcuni direbbero che le persone pie tra loro, senza altro governo, di solito non sono ben disposte ad avere dei chevetaines di per sé se non in quantità sufficiente o a sottomettere il loro ospite alla vera obbedienza del .1111. virtù molto decantate. Che meraviglia! Infatti, per natura la maggior parte è rozza, mal nutrita nella virtù e nelle macchine pesanti: e, quel che è peggio, sia per natura che per malnutrizione, alcuni non provano alcuna ribellione contro i loro signori naturali, perché si sentono in schiavitù, come è stato più volte dimostrato. Certamente, prosegue, tra loro ci sono uomini saggi, sottili, adorni di virtù. I fanti dimostrano costanza e valore, ma in questo caso è perché i loro “governatori” sono “gentiluomini o statisti ben nutriti e virtuosi”. In ogni caso, questo primo grado è insufficiente (a cura di Kervyn de Lettenhove, nella sua edizione delle opere di Jean Froissart, XVI, Bruxelles, 1874, p. 467-468)
9. Raoul Glaber, Historiae, a cura di M. Prou, Parigi, 1886, p. 44, citato da J. Flori, The rise of chivalry, 15th-14th century, prefazione di L. Genicot, Genealogy, 1986, p. 170.
10. Dal primo concilio dell’Imtran all’avvento di Innocenzo III (1123-1198), 2a parte, di R. Foroille e J. Rousset de Pina, Parigi, 1953, p. 212, (Histoire de l’Eglise depuis les origines jusqu’à nos jours, fondée par A. Fliche et V. Martin, dirigée par J.B. Duroselle et EJarry, 9).
Autore: Philippe Contamine
Fonte: Le combattant dans l’Occident médiéval, in Actes des congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public Année 1987
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